lunedì 24 dicembre 2007

MERCATO DEL LAVORO


PROPOSTE PER UNA SOCIETà ATTIVA E PER UN LAVORO DI QUALITà
(Presentazione a cura del Dott. Marco Biagi)
Consulta dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro,
Roma, 25 gennaio 2002
(Testo trascritto dalla registrazione, non rivisto dall’autore)
Sono molto grato di questo invito, perché il confronto sui temi del lavoro è molto utile in tutte le direzioni e in tutti gli ambienti; essendo poi io anche un credente, mi è particolarmente di aiuto riflettere nell’ambiente della Chiesa a cui appartengo e in cui credo.
Io sono professore ordinario di diritto del lavoro all’università di Modena e da molti anni collaboro al Ministero del lavoro, anche con diversi ministri; in questo caso, sono consigliere del ministro del lavoro Maroni. Ho coordinato la parte scientifica del progetto di questo governo di riforma della legislazione sul mercato del lavoro e oggi sono sostanzialmente responsabile degli aspetti tecnici della proposta di legge che poi il governo ha fatto il 15 novembre che traduce, almeno in parte, il programma di questo libro bianco sul mercato del lavoro.

Osservazione di metodo

Innanzitutto un’osservazione di metodo; è la prima volta che un governo, all’inizio della legislatura, fa un libro bianco. Il ‘libro bianco’ è un genere letterario che appartiene all’esperienza europea, in cui è buona regola, prima di fare delle proposte concrete e dettagliate di tipo legislativo, presentare in forma di studio, con opzioni aperte, un programma che possa raccogliere suggerimenti, contributi e consigli da parte dei vari interlocutori. Voi siete sicuramente uno di questi.
Anche se il libro bianco, presentato il 3 ottobre, non sta negli scaffali di una libreria, è strumento di attività politica e, come vi dicevo, ha già trovato alcune prime proposte, da un punto di vista normativo, in un disegno di legge che è attualmente in discussione al Parlamento e che contiene l’arcinota questione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori su cui potremo tornare.
Il libro bianco è effettivamente uno strumento di confronto e su tantissime questioni il governo non ha ancora deciso, non ha ancora preso un orientamento definitivo e quindi è molto utile il confronto.
Però il libro bianco, sul mercato del lavoro, è un documento molto controverso
Ho deciso di iniziare proprio così, presentandovi un testo realizzato da alcuni miei colleghi, prevalentemente di area CGIL, intitolato Lavoro, ritorno al passato, pubblicato recentemente dalla casa editrice della CGIL, che costituisce la critica al libro bianco e ad alcune prime proposte operative.
Quindi da parte di un accademico è obbligatorio e metodologicamente corretto che io vi dia subito l’indicazione bibliografica della critica del documento che io vi porto questa mattina in presentazione.
È raffigurato, vedete il lupo che si copre la faccia con una maschera d’agnello, ma che si toglie; è il lupo che sarei io o qualcosa del genere che viene raffigurato in questo libro dai miei colleghi; ma questo fa parte di un sano dibattito che finché rimane dal punto di vista di qualche immagine fa solo piacere ed è il sale della vita!
Veniamo un po’ più al merito; cercherò di annoiarvi il meno possibile, anche se tenete presente che io sono un giurista del lavoro e quindi viaggio sempre nella concretezza, ma anche nella noia a volte delle norme giuridiche.

Tasso di occupazione in Italia

Il libro bianco parte da una considerazione, di carattere invece extragiuridico, e cioè che il tasso di occupazione in Italia è molto basso ed è fra i più bassi dell’Unione Europea e in particolar modo è bassissimo il tasso do occupazione femminile.
Il tasso di occupazione è un concetto molto importante: è il rapporto fra la popolazione attiva e quanti sono effettivamente occupati.
Vi proporrei questo concetto di base come elemento di riflessione; perché questo governo, a differenza di altri governi, punta molto su questo concetto, cioè sul tasso di occupazione, non su quello di disoccupazione: vediamo quanti sono occupati fra quelli che potenzialmente sono in grado di esserlo. Se uno guarda questi dati il nostro Paese sicuramente, dal punto di vista dell’occupazione regolare naturalmente – sto parlando di quella che è regolata da contratti, da leggi, quella che è emersa, come diciamo in gergo, non quella che è sommersa – è molto bassa.
Bisogna migliorare… e quindi voi capite anche una parte del sottotitolo di questo libro bianco che è Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità.

Qualità del lavoro

Questa è l’altra seconda parola chiave molto importante “qualità del lavoro”. Non basta cercare, attraverso varie iniziative, di aumentare il tasso di occupazione, ma occorre anche migliorare la qualità del lavoro.
Cosa si intende per qualità del lavoro? Non è che ci sia un decalogo; ci sono però dei principi che vengono elaborati proprio in questi mesi, in questi anni, dall’Unione Europea. Innanzitutto, il lavoro di qualità è un lavoro regolare, emerso; è un lavoro disciplinato da leggi e contratti e quindi che non è preda di sfruttamento, di abusi, di ricatti; un lavoro liberamente scelto, liberamente condiviso; un lavoro, diciamo anche di più, che ovviamente dia motivazione, realizzi l’individuo.
Un lavoro che concili il grande aspetto della vita umana che è il lavoro, ma anche gli altri aspetti ugualmente importanti; la vita familiare, la vita personale; potrò aggiungere in questa sede: la vita e l’esperienza religiosa. Un lavoro che consenta all’uomo, alla donna, di realizzare pienamente la sua personalità.
Questo è un altro concetto di base; non basta far lavorare la gente; bisogna che il lavoro sia organizzato in modo da consentire un pieno sviluppo della personalità.
Questo è molto importante. In un Paese che ha una bassissima natalità, realizzare delle condizioni per cui la vita familiare abbia una vitalità e quindi una capacità procreatrice tale da poter mantenere, nel nostro Paese, una forza lavoro, anche locale, è importante, quantitativamente.
Non è molto tempo, per dirvi la verità, che in materia di lavoro ci si occupa di questi aspetti, che sono sempre molto trascurati; come dire, la famiglia è una questione che riguarda lui, è il privato…; cosa c’entra il mercato del lavoro, cosa c’entriamo noi, il governo, il legislatore, il Parlamento in tutto ciò?
Noi ci occupiamo di regolare le condizioni di lavoro. Questo nostro libro bianco rifiuta questa impostazione troppo ‘lavoralista’ e accoglie invece una prospettiva sicuramente più ampia; per ragioni umane, ma sarò molto sincero, per ragioni anche di produttività, perché il lavoratore che si realizza meglio complessivamente, che riesce a conciliare vita personale, esperienza familiare e attività lavorativa è anche un lavoratore che rende di più e produce meglio e questo, quando mi trovo in tutt’altro contesto, e cioè a parlare con gli imprenditori, è un punto che sottolineo, ma, per onestà intellettuale, sottolineo anche a voi, perché occorre poi che ci sia una condivisione di questi valori, non da parte certamente vostra o organizzazioni sindacali, ma anche da parte datoriale; quindi bisogna convincerli di percorrere la strada della qualità del lavoro.
È importante cogliere questi due aspetti introduttivi, perché se non si assumono queste idee di base è difficile poi capire tutto il resto.

Parola chiave: Europa

La terza parola chiave è Europa. Siamo sempre più parte dell’Europa, non soltanto come retorica politica, ma anche proprio come esperienza regolatrice dell’economia e del lavoro. Abbiamo delle regole in Italia, per quello che riguarda il lavoro, la materia che io insegno e cioè il diritto del lavoro, che questo governo, nel libro bianco, e io mi riconosco in questo giudizio, considera obsolete; molte, non tutte delle leggi, che noi abbiamo in materia di lavoro io personalmente le considero datate; sono figlie normalmente (la gran parte di esse), di un periodo storico molto importante che furono gli anni ‘70, dallo Statuto dei lavoratori in poi… la legislazione sul lavoro più importante e più caratteristica in Italia data in quel periodo; non che dopo non ci siano state altre leggi, però fondamentalmente.
L’organizzazione del lavoro, i rapporti sindacali erano molto diversi; sono passati trenta/quaranta anni, è passato tanto tempo; sono arrivate le nuove tecnologie, è arrivato tutto un altro modo di organizzare il lavoro e la legge, le regole non si sono evolute corrispondentemente.
Naturalmente se leggete questo libro vi dice il contrario! Per carità, io esprimo soltanto una valutazione. Però non è una valutazione mia che sarebbe ben poca cosa e ben poco interessante. È la valutazione anche dell’Unione Europea che, sarò breve su questo punto, ogni anno valuta le politiche occupazionali degli Stati membri e con l’Italia è piuttosto severa e non da poco tempo. Sono quattro o cinque anni che ci prendiamo delle ‘ramanzine’ piuttosto serie.
Si dice che la nostra politica dell’occupazione non è efficace e dobbiamo (si dice in gergo), modernizzare le regole che riguardano i rapporti di lavoro.
Perciò io mi riconosco in questo giudizio, autorevole, istituzionale addirittura dell’Unione Europea.
Quindi bisogna progettare, questo è il senso del libro bianco e delle iniziative successive, un progetto di modernizzazione.
Modernizzare vuol dire cambiare; questo è un punto fondamentale della polemica politica e sindacale, ma anche in sede scientifica. Io cerco sempre di dirlo con le parole più semplici possibili facendo la vita del docente universitario; la distinzione è fra chi vuol cambiare e chi non vuol cambiare.
Esiste nel dibattito appassionato, che avrete sicuramente seguito sui giornali, un fortissimo scontro che vede oggi artefice questo famoso articolo 18 sui licenziamenti fra chi sostanzialmente lo vuole cambiare e chi non lo vuole cambiare.
Ma quello è ciò che emerge del dibattito; riguarda anche tutto il resto.
Direi che c’è una tendenza purtroppo a una radicalizzazione del dibattito, perché esiste un fronte molto articolato favorevole al cambiamento, all’aggiornamento della legge; faccio un esempio: lo stesso concetto che io ho discusso nel mondo ACLI, della flessibilità sostenibile, appartiene a questa visione di aggiornamento.
Ma esiste anche una scuola di pensiero, chiamiamola così, assolutamente contraria che vede, nelle proposte di cambiamento, nel gergo sindacale a cui voi siete abituati, anche se un po’ forte, progetti antidemocratici, attacchi ai diritti fondamentali, violazioni di norme costituzionali e quant’altro.
Quando il dibattito si radicalizza sicuramente possiamo dire, non è una bella cosa…il dialogo si fa difficile. Per dirvi che anche questi concetti che io vi sto esponendo sono tutt’altro che condivisi.

Dialogo sociale

Un’altra parola chiave è dialogo sociale, che è un’espressione molto in voga che deriviamo dall’esperienza comunitaria e che significa confronto fra le parti sociali, le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali.
Il modo migliore per regolare i rapporti di lavoro è sicuramente attraverso accordi fra coloro che rappresentano chi dà lavoro e chi presta lavoro, datore di lavoro e prestatore di lavoro; i contratti collettivi, gli accordi sindacali sono sicuramente la strada migliore per regolare questo lavoro che cambia così velocemente.
Ecco un’altra diversità col passato: nei decenni precedenti noi avevamo un’organizzazione del lavoro che si evolveva, certo, si è sempre evoluta, ma mai con la velocità con cui si sta evolvendo negli ultimi anni. Questo è un grande elemento di novità che noi mettiamo in questo nostro documento.
È questa accelerazione è talmente forte; le riorganizzazioni delle imprese sono talmente traumatiche, i processi di competizione si sono talmente globalizzati che, a questo punto, bisogna agire in fretta; non c’è molto tempo da perdere; perché se si va lenti chiudono grandi aziende; vanno sulla strada centinaia, per non dire migliaia, di lavoratori. Scompaiono intere linee aeree; io viaggio molto per mestiere. È scomparsa la Sabena, in Belgio, e sembrava impensabile che scomparisse una linea aerea! C’è chi dice che fra qualche tempo in Europa si volerà soltanto con la Lufthansa, la British Airways e la Air France e che scomparirà anche la nostra beneamata Alitalia!
La globalizzazione non è una cosa da discutere nei convegni; può lasciare vittime sulla strada di un mercato del lavoro che quindi deve essere governato. Lungi da me l’idea di lanciare dei messaggi angoscianti; però dobbiamo renderci conto che i presupposti per intervenire, e intervenire rapidamente, sono di contrastare delle conseguenze che dal punto di vista sociale possono essere gravissime.
Perché quando gli imprenditori italiani si stufano delle nostre regole e vanno in Romania… quando gli imprenditori italiani non riescono a competere con gli altri… tutti volano con la compagnia aerea tedesca; io sono del nord! Nel nord si vola quasi esclusivamente con compagnie aeree non italiane. Bisogna rendersi conto che i tempi, la velocità della decisione devono essere molto rapidi.
Il dialogo sociale è uno strumento ideale, ma a volte è uno strumento molto lento – volevo arrivare su questo punto – perché i sindacati sono molto restii al cambiamento, sono tutti uguali… Io li conosco piuttosto bene per mestiere. Ci sono amici, come gli amici cislini, che sono sicuramente un sindacato più aperto al cambiamento; ma altri ambienti sindacali sono molto conservatori.
La parola sembrerà un po’ strana, rivolta ai sindacati, ma i sindacati a volte sono estremamente conservatori!
Quindi il dialogo sociale, bene…, ma bisogna che proceda più rapidamente e quindi se le parti sociali non si mettono d’accordo, qualcuno deve pur decidere e sarà il governo, il parlamento, secondo le regole democratiche.
Bisogna trovare degli strumenti un po’ più moderni per regolare il mercato del lavoro. Quali?
Lo strumento preferibile per lavorare continua ad essere quello che noi chiamiamo il rapporto di lavoro a tempo indeterminato; cioè quando un dipendente è assunto stabilmente. Non è fissato un termine per la scadenza del suo contratto. È l’assunzione.
Quello sicuramente è un lavoro dei più importanti, perché il lavoratore avrà prevedibilmente un reddito che gli consente di mantenere se stesso e la sua famiglia, come dice l’articolo 36 della Costituzione. Quel lavoratore sarà più impegnato, più realizzato, farà più carriera, guadagnerà di più; tutto bene! Non tutti possono essere però in questa condizione; non è pensabile che il mercato del lavoro sia composto da persone che lavorano a tempo indeterminato, cioè ripeto stabilmente, ad orario pieno, tutti uguali.
Questa standardizzazione è contraddetta dall’esperienza del mercato del lavoro.
Gli imprenditori non possono assumere tutti in questa forma; hanno bisogno anche di altre forme.
Quali? Ecco, bisogna trovarle, regolarle, in maniera civile e seria, perché altrimenti gli imprenditori fanno come quei bambini a cui si nega qualche cosa che poi se la vanno a prendere da soli, perché così è la legge dell’economia. Fuor di metafora: oggi, per esempio, sono così diffuse le cosiddette collaborazioni coordinate e continuative che sono una forma, diciamo all’italiana, un po’ ‘furbesca’, un po’ ‘truffaldina’ di “assumere” una persona senza avere i vincoli del vero lavoro dipendente; si pagano contributi inferiori e soprattutto – quando non se ne ha più bisogno, per un motivo o per l’altro – ci si saluta con una stretta di mano.
Ogni tanto poi si finisce davanti a un giudice che dice che tutto questo è sbagliato, ma il più delle volte invece va bene.

Flessibilità

Questa è una flessibilità non regolata, sostanzialmente non disciplinata dalla legge, se non per qualche profilo fiscale e previdenziale. Noi, in questo libro bianco, diciamo che questa strada furbesca alla flessibilità sul lavoro non va bene; deve finire, non è così che si fa!
Non si può continuare ad andare avanti con due milioni di collaboratori coordinati e continuativi in Italia, molti dei quali sono finti. Però perché si è così gonfiata questa prassi delle collaborazioni coordinate e continuative? Perché quando io ho bisogno di un lavoro occasionale; sono una famiglia che ho bisogno di un’assistenza domiciliare per la mia mamma anziana, per il mio bambino piccolo, ecc., non posso mica caricarmi di un lavoro dipendente con oneri contributivi altissimi, strutturato, ecc.
Ho bisogno di uno strumento più flessibile; queste collaborazioni coordinate e continuative, però tenete presente, sono certamente preferibili al lavoro nero, preferibili al lavoro irregolare, preferibili a forme di sfruttamento e di ricatto…, però siamo in una zona tutto sommato, lasciatelo dire a un giurista, ai margini della legalità!
Bisogna trovare delle formule diverse. Il collaboratore coordinato e continuativo è colui che fa un progetto, non uno che lavora stabilmente con un orario o comunque in un’organizzazione del lavoro.
Un esempio banale: ho bisogno di realizzare una ristrutturazione dei miei uffici, una riorganizzazione, ecc. e ti affido un progetto, quello è lavoro di collaborazione coordinata e continuativa. Ma se io dico che ho bisogno di te, perché tutte le mattine più o meno alle 9 devi essere qua, perché devi lavorare con altra gente, in un’organizzazione, ecc., quello è lavoro dipendente e bisogna avere l’onestà intellettuale di dirlo.
Allora vedete, nel nostro strano linguaggio, il libro bianco, accusato di essere, perdonatemi la battuta, un po’ troppo di destra, a volte poi viene accusato dall’imprenditore di essere un po’ troppo di sinistra!
Io ricordo la nostra attenzione ad una regolarizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative… sono gli imprenditori che strillano come delle oche e dicono che non vogliono assolutamente sentirne parlare.
Quindi in questa materia poi si rischia spesso di scontentare un po’ tutti.

Statuto dei lavori

Un’altra parola chiave, vado per sommi capi, è quella dello Statuto dei lavori. Intenzione di questo governo è quella appunto di aggiornare la disciplina giuridica e passare dallo Statuto dei lavoratori del 1970 ad uno Statuto dei lavori.
Qual è la grande differenza al di là degli slogan? La differenza è che, mentre lo Statuto dei lavoratori del 1970 regolava proprio il lavoratore di cui vi parlavo prima, dipendente, a tempo indeterminato, in sostanza ad orario pieno… cioè la figura fordista del lavoratore, in questi trenta-quaranta anni in realtà di tipi di lavoratori ne sono fioriti tanti. Quindi c’è bisogno di uno statuto dei lavori, dei diversi tipi di lavoro che tuteli tutti, come tutele di base. Perché da un lato dobbiamo accettarla la flessibilità, cioè dobbiamo avere dei contratti più moderni, ma dall’altro dobbiamo affermare che tutti coloro che lavorano, in qualunque forma – autonoma, subordinata, permanente, occasionale, anche volontaria e gratuita – hanno certi diritti.
Non ha molta importanza che io sia pagato o che sia un volontario per quello che riguarda la sicurezza sul lavoro. È chiaro che le prescrizioni antinfortunistiche sono le stesse per chi entra questa stanza e presta attività di volontariato e chi entra in questa stanza regolarmente assunto.
Non c’è alcuna differenza; non ci deve essere nessuna differenza!
Chi presta attività lavorativa a diverso titolo deve essere ugualmente rispettato dal punto di vista delle opinioni politiche, sindacali, religiose, ecc. Quindi ci sono dei diritti di base che vanno riconosciuti a tutti e la nostra legislazione è molto debole da questo punto di vista.
Invece poi ci sono delle regole che devono essere riorganizzate e rivedute a seconda dei diversi tipi giuridici di lavoro.
Vi faccio un esempio; noi intendiamo introdurre un tipo di lavoro che si chiama ‘lavoro a chiamata’. Che cos’è? È molto semplice. Io devo curare un giardino; come posso fare? Oggi si ricorre a tante formule più o meno furbesche, molto alle collaborazioni coordinate e continuative, anche per attività di questo genere. Invece, io posso anche avere un dipendente, ma un dipendente a chiamata, nel senso che quando ho bisogno lo chiamo e lo pago per il numero di ore necessario per curare il mio giardino.
Vogliamo fare un esempio un po’ più importante? Per l’assistenza familiare. Io ho avuto bambini piccoli, la baby sitter non è una persona che si può chiamare come un taxi, perché col bambino piccolo deve avere un rapporto molto intenso di cura, di affetto, di attenzione, per non parlare dell’attenzione che un genitore deve avere nel lasciare il proprio figlio piccolo nelle mani di una persona capace di trasmettere amore oltre che di preparargli la colazione.
Anche in quel caso, perché ricorrere a queste formule che sono sempre lavoro nero come è noto? Si può avere un rapporto con una persona che diventerebbe tuo dipendente, ma che tu paghi a chiamata, cioè quando la chiami, quando proprio lavora per te.
Poi ci possono essere dei lavori a chiamata di tipo obbligatorio; allora io sono obbligato a rispondere alla chiamata. Bisogna che allora io abbia una indennità che mi consenta magari di rifiutare altri lavori; magari sono uno studente, sono una casalinga e mi interessa questo tipo di contratto, però voglio avere delle garanzie visto che ho l’obbligo della chiamata. Oppure, no, non ho l’obbligo della chiamata… “vengo se posso” e allora non c’è necessità di corrispondere nessuna indennità.
Ho voluto farvi questo esempio, un po’ estremo, perché, secondo me, il lavoro irregolare viene recuperato, viene fatto riemergere se la strumentazione giuridica viene modernizzata, se vengono create delle convenienze.
Io mi sono occupato molto, soprattutto al comune di Milano, di questa questione della regolarizzazione degli interventi di assistenza domiciliare presso gli anziani.
Una società come la nostra, con una popolazione che invecchia così rapidamente, con le famiglie che sempre più hanno in casa anziani, è un mercato del lavoro, consentitemi di usare queste parole forse un po’ crude ma è così, nuovo, quello dell’assistenza domiciliare che ha bisogno di nuovi strumenti. Non possiamo pensare che la persona che viene ad assistere appunto la mamma anziana, nell’orario in cui siamo a lavorare, abbia lo stesso contratto di chi lavora in una catena di montaggio. Non ha nessun senso!
Allora bisogna avere il coraggio, la determinazione, la volontà politica di dire che questi strumenti vanno ripensati, riorganizzati e non si può dare a tutti gli stessi diritti; secondo voi se io assumo appunto con strumenti nuovi, moderni, una persona che viene a casa mia e che assiste appunto o i miei bambini o i miei genitori anziani, io devo ammettere che questa persona abbia le tutele assicurate da questo famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori… Cioè che se io la licenzio ci sia qualcuno che me la rimanda in casa con un ordine del giudice?
Io dico: bisogna scegliere, bisogna distinguere. Un conto è lavorare in un’azienda manifatturiera con centinaia di dipendenti, un altro è lavorare in un contesto familiare.
È vero, è rapporto dipendente o come lo chiamiamo noi è lavoro subordinato, ma il contesto è troppo diverso. Allora, oggi l’alternativa è: grandi diritti per chi è in fabbrica, spesso lavoro nero per chi in fabbrica non c’è.
Per esempio, l’attività di assistenza familiare ormai è un’attività in grado di creare grande occupazione, i numeri non li sappiamo perché sono quasi tutti sommersi, ma è certo che questo mercato è sicuramente in aumento.
Ho voluto insistere su questo esempio, avrei potuto sceglierne tanti altri, perché mi sembra abbastanza illuminante per la necessità di modernizzazione.

L’articolo 18

Ecco perché voi sentite tutta questa ‘guerra’ (scusate l’espressione) sull’articolo 18: qui effettivamente non è facile dirlo in due parole... O ci si accontenta di una tutela di chi è già occupato, sindacalizzato nella grande impresa, strutturato, come si dice, o si rivolge l’attenzione verso tutti i deboli del mercato del lavoro.
I deboli del mercato del lavoro sono quelli che, nella terminologia comunitaria, si chiamano ‘soggetti a rischio di emarginazione sociale’, formula un po’ pomposa per dire ‘coloro che non hanno tutele’ e allora bisogna dargliele, bisogna correre in loro soccorso, integrarli, farli diventare lavoratori rispettati e rispettabili, con degli strumenti però diversi, perché altrimenti nessuno lo farà mai, il lavoro nero vincerà sempre; il male, la piaga del lavoro clandestino… noi abbiamo in Italia e lo sapranno bene coloro che tra voi vengono dal sud… Io ho lavorato nel sud, ho insegnato in Calabria per alcuni anni e conosco le condizioni di sfruttamento, di ricatto; ma ci vogliono strumenti nuovi, perché non tutti gli imprenditori possono essere fra l’altro ‘cuor di leone’.
Cercando di organizzare un po’ un altro punto che sta molto a cuore a una parte del movimento sindacale: la partecipazione dei lavoratori. Una larga parte è dedicata appunto alla partecipazione, cioè chi lavora deve partecipare all’organizzazione del lavoro, deve essere, in qualche modo, coinvolto nelle scelte che riguardano una parte così importante della sua vita qual è quella lavorativa.
Questa è una scelta di fondo. E’ una scelta di civiltà, di cultura; ma anche, ancora una volta, una scelta sorretta da robuste argomentazioni economiche.
Il lavoratore che non partecipa è un lavoratore prevedibilmente demotivato, alienato, frustrato, spesso marginalizzato e quindi poco produttivo. Colui che partecipa invece può trovare ragioni di impegno maggiore o come si chiama oggi di fidelizzazione che il denaro, la semplice retribuzione non può realizzare.
Certo, il compenso del lavoratore dipendente è un elemento determinante dello scambio, ma non è l’unico elemento di motivazione. È cambiato il mondo del lavoro; c’è più cultura, si legge di più, si parla, la motivazione è data da fattori anche extra monetari e bisogna, quindi, realizzare questi aspetti, uno dei quali è proprio quello che noi chiamiamo la democrazia economica, la partecipazione cioè le modalità per coinvolgere i lavoratori nei processi decisionali e anche in quelli finanziari; quindi parte del ritorno economico può essere dato anche coinvolgendoli nelle scelte di investimento delle imprese stesse.

Servizi pubblici e conflittualità

Ultimo capitolo, ve lo accenno, perché deve essere chiaro: servizi pubblici e conflittualità
Il libro bianco mette il dito nella piaga di questa microconflittualità che continua ad affliggere il Paese… gli scioperi, i calendari di agitazione, tutti noi che viaggiamo abbiamo una grande attenzione sempre sui quotidiani sugli scioperi che ci sono nei trasporti. Ma questo è uno stillicidio! Anche qui si colpiscono i poveri, i deboli, perché quando la metropolitana di Milano non funziona, quando c’è il caos a Milano e a Roma ne fanno le spese quelli che non possono prendere i taxi. Quando il povero pensionato ha l’appuntamento all’ospedale e non riesce ad andarci, non può spendere trenta o cinquanta mila lire di taxi. Anche queste scelte sono fatte tutto sommato con un occhio particolare rivolto ai deboli del mercato del lavoro.
Quindi questa conflittualità bisogna cercare di ricondurla ai limiti più ragionevoli; il libro bianco fa una proposta fra le mille che si possono trovare che è quella di un referendum, cioè che quando si sciopera in contesti particolarmente delicati, si abbia la cortesia di fare una consultazione dei lavoratori per vedere se si è veramente tutti d’accordo, prima di fermare un treno, bloccare un aeroporto o servizi di questo genere!
Concluderò con qualche battuta d’attualità e poi mi farebbe molto piacere scambiare qualche confronto con voi.
Nel novembre scorso il governo ha approvato un disegno di legge che è all’attenzione del parlamento, che comprende altre cose di cui non ho avuto tempo di parlarvi; non vi ho parlato del lavoro interinale che è sicuramente stato un’esperienza molto utile, sempre nella logica di regolarizzazione e il lavoro interinale viene portato ancora più avanti da queste proposte del governo; ma questo discorso si farebbe troppo lungo…
Certamente si tocca la materia dei licenziamenti; ve ne siete accorti dal dibattito, ve l’ho ricordato anch’io questa mattina. Perché? Ma vedete, qualcuno può anche pensare, ma questo governo com’è proprio testardo… Andare proprio a tirar fuori un argomento così che rianima lo spirito di cui nessuno sente proprio il bisogno, anche nel nostro mondo di crociate. Cerchiamo bene il dialogo, cerchiamo ciò che ci unisce, non ciò che ci divide.
Certo, io difatti ogni tanto mi sono anche chiesto se valeva la pena; però vedete mi occupo, come vi ho detto all’inizio di questa interessante materia ormai da molti anni e noto questo: i progetti si susseguono, le proposte sono anche interessanti, ma la velocità è molto lenta.
Noi giriamo con una bicicletta, in materia di lavoro, di aggiornamento della legislazione del lavoro quando il mondo viaggia con gli aerei supersonici! Andiamo troppo lenti e quindi – è questa la mia tesi – non aggiornando la legislazione sul lavoro, condanniamo molta parte dei lavoratori italiani residenti, e anche extracomunitari, ad una situazione di sottoprotezione.
Fra l’altro la questione degli extracomunitari è importantissima; non mi occupo, ve lo dico prima, delle controverse questioni che riguardano gli immigrati che è un’altra sezione del ministero del lavoro; però penso che, anche per regolarizzare questi lavoratori di cui secondo me il Paese ha sicuramente bisogno, occorre trovare degli strumenti più moderni e più adatti.
Tutto questo è un ritorno al passato, è sfruttamento? No, la flessibilità sostenibile – a me è piaciuta molto questa idea delle ACLI – che coniuga i diritti sociali e fondamentali, i diritti della persona, a modalità però più moderne per vivere l’esperienza lavorativa non mi sembra in contrasto.
Mi sembra invece un modo per valorizzare appieno il lavoratore, la sua dignità e metterlo in condizioni di vivere una vita piena e realizzata.
Grazie.
Moderatore
Grazie professore per questa esposizione; apriamo ora il dibattito; certamente ci sono cose condivisibili e altre meno.

Dibattito

· Intervento: don Raffaele Ciccone
Sono don Ciccone e mi occupo della pastorale del lavoro di Milano. Visto che l’ha citato molto Milano, mi sembrava importante.
Il libro bianco so che è stato fatto in un contesto in cui non c’era ancora Berlusconi come presidente e quindi questo tipo di rilettura. Comunque esso propone come grande linea, tra l’altro, il discorso sulla flessibilità che si dice tasso di occupazione.
A mio parere, la prima cosa importante è che cosa ne facciamo della concertazione, cioè che cosa utilizziamo nel rapporto con il mondo del lavoro che si è strutturato con il sindacato, visto che questo, bene o male, ha retto negli anni ‘90 una problematica drammatica di inserimento nell’Europa, ecc., e quindi ai lavoratori è stata chiesta una grossa fatica e un grosso impegno di verifica, anche perché, tra l’altro, il tasso d’inflazione non è al 2%.
Ogni signora che va a far la spesa al mercato la trova almeno del 7-8%. Io vado a mangiare lì vicino al posto dove sono dove sono e nel giro di un anno è aumentato del 12% il mangiare che fanno, nello stesso posto! Per riuscire a mantenere un equilibrio, mi piacerebbe anche vedere il paniere di che cosa è costituito.
Cosa ne facciamo della concertazione, cosa ne facciamo del sindacato, visto che a un certo punto si parla anche di contratti individuali?
Il sindacato riesce ad essere una realtà importante, preziosa, d’intesa, di pace sociale oppure lo vogliamo smantellare e onestamente gli ultimi tentativi di spaccare la CGIL dalla CISL e dalla UIL sono stati plateali…
Debbo dire che l’articolo 18, per fortuna, li ha assemblati ancora; spero che tengano.
Si parla di part-time; allora qui si entra nel discorso famiglia. Oggi la famiglia è obbligata ad avere due redditi, perché – e non se ne parla mai – il problema più grosso è quello del costo della casa; il costo della casa, il quale a Milano si aggira sul milione e mezzo al mese come affitto oppure ci sono i mutui. Allora un milione e mezzo più le spese (gas, luce e telefono) suppone un reddito della donna e poi c’è quello dell’uomo che permette di poter vivere.
Il part-time perciò è un’illusione, a meno che ci sia un monoreddito piuttosto alto, di quattro/cinque milioni; allora è possibile il part-time che è interessante non si dice solo per la donna, ma per la donna che normalmente può seguire i figli.
Allora questo mette in crisi tutta la problematica del trovare un equilibrio all’interno del lavoro.
Il problema del federalismo non è stato toccato; comunque il federalismo è delicatissimo! Può essere interessante il federalismo sulle politiche attive, ma non per esempio, sulla tutela e sicurezza del lavoro, perché farebbe venir fuori un caos. Le aziende oggi hanno puntato sulla cosiddetta esternalizzazione; all’interno di un’azienda ci sono almeno diciotto figure diverse (e l’ho scritto anche da qualche parte) di lavoratori che si intersecano e le aziende oltretutto, si sono ridimensionate.
Io abito a Sesto S. Giovanni, che aveva una popolazione di tute blu; non è che abbia nostalgia, ma era sui sessantamila abitanti… era più dei residenti; adesso non c’è più nulla, assolutamente nulla. C’è la BB che però vuole smantellare. Allora le aziende si sono ristrutturate, si sono rimpicciolite, hanno esternalizzato con contratti che non si sa che ‘diavolo’ di contratti siano, soprattutto quelli di cooperativa.
La maggioranza delle aziende italiane sono sotto i quindici dipendenti, per cui la disoccupazione è continua, all’interno del mondo italiano, se è per questo. In più viene comunque licenziata una persona quando si ristruttura… è la parola magica questa: dobbiamo ristrutturare l’azienda e quindi il sindacato deve correre a tamponare!
Da me arrivano almeno una volta al mese aziende che chiudono. L’ultima è la Postal Market, tanto per fare nomi. Corrono dicendo: ci ristrutturano e da seicento persone vogliono ridurre a duecento e le altre cassa integrazione due anni e poi lo sa il Padreterno dove vanno a finire!
Per non parlare poi per la famiglia dei turni, cioè la flessibilità è anche un problema qualitativo di turni drammatici, ecc.
È un discorso estremamente delicato; l’articolo 18 tocca una minoranza di lavoratori.
· Intervento: don Gianni Fornero
Sono delegato della pastorale del lavoro per il Piemonte, a Torino.
Alcune considerazioni di partenza. Effettivamente in Italia c’è troppo lavoro nero, è una cosa assolutamente sproporzionata e ingiusta, bisogna cercare di fare qualche cosa.
Dall’altra parte, un altro aspetto sul quale potrei trovarmi abbastanza d’accordo, è che ci sono delle frange del sindacato, particolarmente la Fiom CGIL che sta facendo adesso il suo congresso nazionale, che effettivamente sono legate ad una visione del passato, collegate prevalentemente a Rifondazione comunista, e ad una società come se non fosse neppure caduto il muro di Berlino, sul quale io penso che sia bene prendere le distanze, perché ci porterebbero lontano.
Fra l’altro lei ha avuto la gentilezza di citare una contraddizione interna alla sinistra, perché solo due anni fa Accornero aveva scritto: l’ultimo tabù. Di questo dobbiamo essere consapevoli tutti, perché anche D’Alema stava pensando a fare questa ‘roba’, cioè sull’articolo 18. Quindi non dobbiamo essere troppo ingenui!
Detto questo però penso che il libro bianco si veda nella sua decisionalità a partire dal disegno di legge. Ad esempio, io penso sostanzialmente, d’accordo col mio amico di Milano, che non so se bisognava partire dall’articolo 18 oppure dalle nuove politiche attive del lavoro.
Altrimenti qui scateniamo un’insicurezza nel mondo del lavoro italiano che è già abbastanza forte e che sarà difficilmente gestibile ed è proprio quella del ruolo che può avere tuttora il sindacato, non quello estremamente conservatore, ma partecipativo, all’interno del nostro Paese e se non riusciamo proprio a gestire queste fasi o questa situazione nuova di flessibilità.
Prima dobbiamo dare delle garanzie, a mio avviso. Dobbiamo intervenire sul rinnovamento del collocamento che non c’è più e non sappiamo bene cosa ci sia. Qui non abbiamo ancora le politiche attive e si vuole già togliere la sicurezza al mondo del lavoro. Non è solo una questione tattica, è una questione di concezione della società verso la quale si vuole andare, che si vuole costruire. Si presta troppo questo attacco all’articolo 18 anche a supporre delle intenzioni che ci siano dietro che siano di delegittimazione dell’organizzazione dei lavoratori, ma anche di una direzione individualista, una tendenza, una visione di fondo individualistica che forse non è nelle sue intenzioni, personali, ma che rischia di essere un’onda individualista e di eccessivo liberismo, per cui mi pare del tutto improprio questo fatto.
Invece sono d’accordo sul part-time. Io ritengo che la battaglia al part-time sia stata fatta da un’onda fra l’estrema sinistra e un femminismo malinteso, mentre invece non risolverà tutto, però ci fosse un part-time più diffuso potrebbe essere estremamente utile nella nostra società.
· Intervento: don Carlo Caviglione
Io dicevo prima qui a Lo Bello che ci voleva una settimana per parlare di questi temi. Però mi ha fatto un po’ impressione, perché io vengo da Genova, dalla Liguria e siccome nella relazione si parlava di superare il passato… è storica a Genova, nel porto, la Sala della chiamata dove, quando c’erano nel porto i dieci, dodici, quindici mila lavoratori (adesso ce ne sono un migliaio), allora andavano da tutte le parti questi disperati e venivano chiamati giornalmente per i lavori che c’erano da fare nel porto. Questo ha creato una certa cultura che poi si è cercato di superare con i nuovi ordinamenti del lavoro.
Ora, per carità, condivido quel tipo di chiamate di cui parlava il relatore; però vorrei stare un pochino attento a questa cultura così della provvisorietà, quasi al limite della disperazione… che uno aspetta che capiti qualche cosa. L’arbitrarietà di queste chiamate e allora si capisce, ci si faceva raccomandare, si vedeva di passare attraverso dei canali privilegiati. Quindi mi pare che sia un po’ una cosa da ripensare.
· Intervento: don Rocco D’Ambrosio (Bari)
Insegno etica politica e do una mano alla pastorale del lavoro. Avrei da dire tante cose.
Ne scelgo di dire una che è quella che mi sta più a cuore. Il libro bianco non mi piace, perché ha una filosofia del lavoro, poi anche dei riferimenti etici, che non condivido assolutamente. C’è una frase molto importante alla pagina decima che dice: “l’ordinamento giuridico deve essere sempre più basato sul management by objectives piuttosto che sul management by regulation: è scritto in inglese purtroppo, ma diciamolo in italiano:
un ordinamento giuridico basato su un’amministrazione per obiettivi e non un’amministrazione per regole. Ed è questo il primo punto: che gli obiettivi, nelle aziende, sono quelli che si fanno per fare maggior profitto.
Le regole si fanno per tutelare un po’ il quadro generale. Se noi passiamo agli obiettivi dove vanno a finire le regole? Nel libro bianco le regole vanno a finire in un campo leggero; ed è questo che mi preoccupa. Se vanno a finire in un campo leggero, noi in fondo avalliamo una filosofia per cui il profitto viene prima di tutto e poi vengono le altre cose, comprese le regole.
(Guardi professore), qui non è una battaglia sulle regole, perché non vogliamo, qualcuno non vuole l’abolizione dello Statuto dei lavoratori o perché qualcuno non vuole guardare al futuro; qui è una battaglia sulle regole nella misura in cui le regole sono garanti della tutela del lavoratore. Per noi che siamo seduti qua, per la dottrina sociale che insegniamo e che condividiamo e che riceviamo dai pontefici, la tutela dei lavoratori è una cosa sacrosanta.
Quindi non si può essere assolutamente d’accordo, ma non è per una questione di destra o di sinistra, quando ho davanti delle persone che devo difendere!
Da questo punto di vista, mi permetta di dire, non mi piace la citazione dei diritti in maniera strumentale. Se uno prende la pagina trentanove di questo libro, bianco su questo benedetto Statuto che a mio avviso deve essere dei lavoratori, perché nei nostri principi etici i lavoratori sono più importanti del lavoro e il lavoro è più importante del profitto.
Allora andiamo a questa pagina trentanove; non è corretto nei confronti di coloro che lo leggono citare in maniera strumentale i diritti e poi dire per tutto il libro “noi ci daremo da fare per mantenere un discorso equo, rispettoso, delle garanzie del lavoro” se poi i diritti vengono citati in questa maniera, mi permetto di dire, strumentale. La dichiarazione dell’organizzazione internazionale del lavoro, quando sancisce i quattro diritti fondamentali, non dimentica la tutela, perché il diritto, l’eliminazione di ogni discriminazione sul lavoro e nell’accesso all’impiego, da che mondo è mondo, in uno stato di diritto, lei mi insegna, si traduce in leggi.
Quindi il diritto fondamentale alla tutela e un ordinamento che tuteli il lavoro c’è ancora.
Poi la carta, che qui si cita, di tutela parla (e infatti lo dice poi il testo che abbiamo davanti) e quindi non vedo perché la tutela del lavoro non è un diritto fondamentale. È meglio dire “la nostra filosofia e quello che ci ispira, in termini di tutela del lavoro” e non invece citare tutto quello che tutela il lavoro e poi non applicarlo molto.
Per finire, e chiudo, alla Costituzione del ‘48 che, non solo è fondata sul lavoro, ma è la Costituzione di uno stato di diritto che non vede norme leggere.
Le norme leggere sono le norme che mettono in crisi gli stati di diritto. Se c’è uno stato di diritto che deve andare avanti, su un bene primario qual è il lavoro, le norme non devono essere pesanti nel senso di bloccare chiaramente i processi di globalizzazione e di produttività, questo siamo pienamente d’accordo, ma le norme devono essere chiare, devono essere precise, devono essere anche forti, e non assolutamente leggere. Questa credo è la perplessità fondamentale.
Quando abbiamo reso le norme leggere, quando abbiamo dato più spazio ai processi di globalizzazione, al fatto che le compagnie aeree, come diceva lei, si chiudono, ecc., anche lì io resto estremamente perplesso, perché non solo ho il dubbio etico di prima che il profitto sia arrivato al primo posto, ma ho il dubbio etico anche nell’individuare le responsabilità.
Perché, finché le norme sono chiare, allora le responsabilità sono più precise.
Quando le norme sono troppo leggere le responsabilità sono un po’ vaghe e… se queste sono vaghe e il mercato del lavoro non produce con la globalizzazione così come la viviamo oggi i miracoli che molti vanno sbandierando a destra e a sinistra allora poi noi dovremmo andare a individuare le responsabilità e come facciamo a individuarle, se l’assetto è tutto un po’ troppo leggero?
· Intervento: dott. Pasquale Caracciolo (Umbria)
Indubbiamente il fatto che sia stato posto all’attenzione delle parti sociali di tutto il Paese questo libro bianco, dal punto di vista metodologico, è certamente un aspetto positivo; se non altro si pone il problema nella sua organicità e quindi su questo diamo un parere favorevole, positivo; anche se sostanzialmente, per alcuni elementi e contenuti, c’è una discreta continuità rispetto al documento del 1997.
Ma se c’è una cosa su cui io metterei l’attenzione e la valutazione è questa filosofia del libro che tende a spostare le tutele e le regole dai lavoratori al mercato del lavoro.
Per certi versi c’è questa esigenza; però sottintende diverse perplessità e anche diversi pericoli. In che senso? Nel senso che spostare il ragionamento sulle regole e sulle tutele del mercato del lavoro presuppone che esista un sistema complessivamente funzionante.
Che esistano i servizi per l’impiego, che certamente, nonostante le riforme recenti sono rimasti bloccati e non funzionano; esiste un problema, il rapporto pubblico-privato rispetto a quei servizi che sono rimasti ancora nella incompletezza; esistono problemi di tutela della disoccupazione, della mobilità.
Perché quello che sta avvenendo è che gli elementi di flessibilità che si sono introdotti dal ‘96 ad oggi, sono non pochi e il ricorso oggi al mercato del lavoro nero evidentemente è solamente una scelta deliberata di illegalità.
Parlo delle realtà che stanno all’interno dello Statuto dei lavoratori, a cui si riferisce l’articolo 18, cioè da quindici dipendenti in su.
Gli elementi di flessibilità, che si sono introdotti in questi ultimi anni, hanno accentuato queste situazioni di non tutela nei confronti dei lavoratori.
Si potrebbero dire altre cose, ma tutto questo, se lo mettiamo in riferimento alle premesse sull’Europa, sulla tutela di tutti i lavori, sulla qualità del lavoro, ecc., stride, perché la realtà è diversa. Queste cose diventano sostanzialmente poesia.
Poi c’è un problema nuovo… non riguarda tanto il libro bianco. Ci si sposta sul terreno concreto della politica. Cosa si intende per governare? Governo con chi? Governo con che cosa e con quali metodi?
So che indubbiamente la scelta fondamentale e fondativa della concertazione, a cui anche il Magistero sociale si riferisce, perché le decisioni non possono essere mai prese gli uni contro gli altri. Le decisioni devono essere prese attraverso un procedimento di reale ragionamento. Poi alla fine, certo c’è chi deve decidere!
Il problema è se trasformiamo la partecipazione in dialogo sociale.
Il dialogo sociale può anche andare bene per l’Italia, se significa superamento della logica del diritto di veto, ma non può semplicemente significare che io introduco alcuni elementi di incontro... cui vediamo, ragioniamo, ecc. e alla fine decido io. Questo è un elemento di interpretazione del dialogo che mi lascia alquanto perplesso, anche perché, se la logica è quella di cominciare a tutelare tutti i lavori, in un mondo del lavoro che è profondamente cambiato e mi si deve dire perché si inizia dall’articolo 18, che è una minima parte del ragionamento.
Evidentemente c’è quello che c’è.

Replica Dr Marco Biagi

Cercherò di toccare rapidamente i punti che sono stati sottolineati e ringrazio dell’attenzione.
Non ho volutamente parlato della delega sul mercato del lavoro per questioni di tempo; però mi consentirete amabilmente di contestare che in queste deleghe si parli solo dell’articolo 18.
Visto che, con mia sorpresa, noto una fortissima attenzione critica nei confronti di questi provvedimenti, bisogna che da parte mia ricordi ai miei cortesi interlocutori che su quarantasette pagine l’articolo 18 è una mezza pagina.
Non voglio infierire, ma allora ve la devo spiegare tutta; qui si parla di mercato del lavoro, di servizi per l’impiego, di orario di lavoro, di part-time, di tante altre cose.
Quindi io devo dire con uguale spirito di amicizia che è falso che i provvedimenti attuativi riguardino soltanto l’articolo 18, come temi, come indice degli argomenti; questo non è vero e quindi sarei molto lieto di intrattenervi su tante cose…, il riordino dei contratti a contenuto formativo, gli ammortizzatori sociali, gli incentivi all’occupazione, gli interventi dei servizi pubblici e privati per l’impiego.
Non posso essere d’accordo che l’intervento sia in una logica sostanzialmente di abbassare tutele e demolire diritti; assolutamente no.
Non sono neppure d’accordo sul fatto che le dichiarazioni di principi, su cui vi ho intrattenuto molto brevemente, siano assolutamente strumentali o, almeno io così le ho capite, contraddette poi da alcune proposte.
Non credo che si tratti di demonizzare nessuno, ma il libro bianco è in ottima compagnia con documenti comunitari che, e questo non vorrebbe dire granché, sono stati concordati a livello di governi con gli altri Stati membri, ma frutto a loro volta di studi abbastanza impegnativi di economisti e di altri scienziati sociali che non mi sembra… Faccio un esempio solo circa la perplessità che in voi hanno destato alcune proposte; vi inviterei ad una lettura. L’anno scorso la Oxford University Press ha pubblicato in inglese un rapporto, fatto da un gruppo insediato dall’Unione Europea che si intitola Beyond employment (Oltre l’occupazione) coordinato da un mio collega dell’università di Nantes, il quale è consigliere di Jospain.
Questo rapporto è esattamente nella direzione del libro bianco; ci si pone il problema di andare oltre l’occupazione attraverso il mercato, ci si pone il problema di affrontare tipologie lavorative che oggi sfuggono, ci si pone il problema di andare nella direzione della terziarizzazione dell’economia, con uno Statuto dei lavoratori che non tutela più nessuno; ci si propone proprio di andare oltre le tradizionali frontiere dell’intervento di tutela.
Vorrei dire (mi sono segnato questo) che qui non è la questione se si tutelano o no le persone che lavorano. Io francamente non mi sono neanche mai posto il problema.
Per me è un principio di affermazione etica; è fuori discussione, se si tutelano le persone sotto qualunque forma.
La questione è come si tutelano le persone; qual è il modo più efficace, quali sono le tecniche di regolamentazione giuridica che possono consentire una migliore... Perché se io devo ammettere che la tutela, o come noi diciamo ipertutela, di alcuni si continui a tradurre nella sottotutela e nell’abbandono di tanti altri, in questo mercato del lavoro nero che continua a proliferare, allora mi consentirete di affermare: la mia etica mi impone di occuparmi di tutti, non solo di quelli che sono tutelati.
Quindi io devo trovare degli strumenti che riguardino tutti, ma un po’ più nel dettaglio.
Il libro bianco non è il funerale della concertazione, perché francamente della concertazione non è che esiste una definizione sola; però anche nell’ultimo Consiglio Europeo di Leaken in dicembre, sindacati e imprenditori hanno fatto un documento e hanno un po’ chiarito cosa vuol dire concertazione, dialogo sociale e consultazione.
Ci sono diverse tecniche.
Concertazione, nell’accezione più consolidata è quella che vede governo e parti sociali decidere assieme.
Bene, allora il povero giurista vi osserva che questo non fa parte della Costituzione; farà anche parte di principi fondamentali, a me ignoti; io non ho mai letto, francamente, scusatemi, che la concertazione sociale sia una questione di magistero. Sarei molto lieto di sapere le indicazioni bibliografiche a riguardo.
Penso che il dialogo sociale, così come è stato codificato nel trattato dell’Unione Europea, sia ugualmente rispettoso e in molte circostanze dia risultati molto più efficaci della concertazione, perché fra l’altro, le parti sociali non sono elette dai cittadini, mentre il parlamento sì e questa non è una questione da poco.
Nel nostro Paese, per le questioni del mercato del lavoro sembra quasi che il parlamento sia diventato una comparsa, che disturba anche! Sono contrario a questa visione. Dico che governo e parti sociali fanno benissimo ad approfondire e discutere, concordare, concertare quello che volete, ma poi si va in parlamento.
Non sono d’accordo che la concertazione sostituisca il parlamento e lo dico a voce alta. Non sono d’accordo col modello del 1998, perché l’ho visto, non funziona; blocca. Io ho vissuta la precedente legislatura; ho visto (considerato che qui siamo andati un po’ sul terreno politico) cosa è successo: ci si è bloccati, non c’è stato niente da fare; è passato il pacchetto Treu, lavoro interinale, certo cose importanti a cui ho contribuito e a cui io credo moltissimo; ma dopo la macchina si è fermata, il no è stato totale.
Allora la mia scelta politica, etica e culturale è di cambiare.
Ascolto con molto interesse gli argomenti, ma basta che gli argomenti non portino che chi è fuori è fuori e chi è dentro è dentro nel mercato del lavoro.
Questo a me non va bene e quindi occorrono dei contratti individuali, sì per portare chi è fuori dentro.
Perché io voglio chiedere: come fate a regolarizzarmi il rapporto di lavoro con l’assistente familiare con l’articolo 18? Non c’entra assolutamente niente.
Nessuno toglie l’articolo 18 a chi ce l’ha oggi; si fa una sperimentazione per vedere se per caso qualcuno che oggi è fuori dal mercato del lavoro possa eventualmente entrarvi se sospendiamo l’articolo 18 per quattro anni. Poi, scusatemi, se bisogna fare il processo alle intenzioni e dire “bugiardo, bugiardo… perché in realtà tu lo vuoi cancellare”; questo però si può dire di qualunque opinione.
Io francamente, essendo fra i tecnici che scrivono le leggi, ho scritto “sperimentare” e credo sperimentare.
Part-time: non è un’illusione, è una grande occasione di vita, perché il part-time quando è volontario, è buon lavoro; quando è involontario è cattivo lavoro, è ricatto, certo!
Quindi di quale part-time parliamo? Parliamo innanzitutto di quello scelto liberamente dalla donna che vuole allevare i figli, da chi vuole studiare, da chi ha una vita che vuole essere organizzata in questo modo. Poi, scusatemi, non facciamo dell’ideologia. Il part-time in Olanda funziona benissimo e non mi sembra che l’Olanda sia un paese incivile. L’Olanda ha un tasso di occupazione molto più alto del nostro e quindi secondo me il part-time, in un certo modo, è uno strumento utile.
Federalismo: non ne ho parlato solo per brevità di tempo. Sono d’accordo, i principi fondamentali sono per tutto il territorio, ma il problema per noi poveri e umili giuristi è che il titolo V della Costituzione, così come riformato dalla maggioranza di centro sinistra, è una confusione totale di norme che si contraddicono e che non è facile mettere insieme. Perché purtroppo ‘l’appetito viene mangiando’. Le regioni di centro destra o di centro sinistra sono lì che hanno gli umori piuttosto bollenti, vogliono e non sanno poi neanche loro che cosa, purtroppo…, la fretta e la politica a volte sono cattive consigliere.
Fare le riforme costituzionali in questo modo, secondo me, non è stata una scelta saggia! Stiamo cercando, speriamo di dialogare un po’, ma direi che le prime avvisaglie sono buone, di interpretare questo guazzabuglio normativo che è il nuovo titolo V in modo tale che sulle politiche attive del lavoro ci sia una conferma e, se possibile, un rafforzamento delle competenze locali – regioni, province, comuni – per vedere se questo scandalo dei servizi pubblici per l’impiego si può superare.
Ho usato la parola scandalo proprio in senso biblico. Per me il fatto che i servizi per l’impiego non funzionino è uno scandalo. Perché naturalmente chi è capace si trova il lavoro da solo e chi poveretto, per varie ragioni, non ha una famiglia abbiente, non ha delle amicizie o non si mette in certi circuiti, non trova lavoro. È una cosa vergognosa!
Queste cose qui bisogna dirle e bisogna anche leggersi con pazienza ed umiltà tutte le proposte dei governi (lungi da me difendere quello attuale che, per molti aspetti dovrebbe veramente cambiare ‘pelle’… ma ci riferiamo ai problemi del lavoro…) e vedere quanto è importante tutto quello che è stato pensato sui servizi pubblici per l’impiego.
Liberalismo selvaggio? Ma il libro bianco parla per pagine e pagine di servizi pubblici per l’impiego. Andatevi a leggere quello che è il liberalismo selvaggio della Thatcher degli anni ‘90. Andatevi a leggere i libri bianchi degli inglesi di quei governi. Quello era liberalismo selvaggio in cui si è distrutto tutto l’impianto pubblico! ma questo non c’è!
Per quello che riguarda poi il management by objectives and management by regulation; questa è una terminologia che viene dalle scienze aziendali e.
Faccio un esempio. Abbiamo leggi sugli infortuni sul lavoro; inosservate, che danno scarsi risultati e che purtroppo non impediscono a un sacco di gente di morire sul lavoro ogni anno! Vogliamo creare non tanto delle sanzioni che assomigliano alle grida manzoniane, ma vogliamo cambiare le tecniche sanzionatorie? Vogliamo dare un premio all’imprenditore che realizzerà un ambiente sicuro? Vogliamo dargli delle convenienze?
Vogliamo dire che gli diamo degli sconti sul piano contributivo e fiscale, se l’ambiente di lavoro sarà sicuro?
Sono tentativi… questo è il management by objectives: se nella tua azienda tu ti impegni a non fare realizzare infortuni sul lavoro oppure che li fai decrescere del 20%, ecc., io legislatore, ti premio. Questo è il senso. Ma francamente l’interpretazione che il management by objectives avesse a che fare col profitto francamente non mi era mai neanche venuto in mente. È una cosa che è completamente estranea, è una tecnica.
Le norme leggere. Non c’entra nulla la sottotutela, perché rimane la legge, il contratto collettivo, tutte quelle che noi chiamiamo fonti. In aggiunta vengono previste, in via sperimentale, delle tecniche regolatorie diverse, ma che non vengono da qualche villaggio africano, vengono dai Paesi anglosasoni, dove esistono i codici di comportamento e altri testi (chiamiamoli così con un linguaggio più semplice), che non hanno l’effetto della legge.
Perché si usano? Perché si ritiene che in certe materie possa essere più conveniente usare delle prescrizioni non del tutto vincolanti, ma incoraggianti, premiali, ma mica sulle questioni fondamentali.
Nessuno pensa di sostituire le prescrizioni contro gli infortuni sul lavoro con le norme leggere. La sperimentazione che verrà fatta è in materia di formazione.
Secondo voi la legge può misurare la formazione del lavoratore? No, è uno strumento rigido, non c’entra niente.
Allora si dice: quando noi facciamo dei contratti di apprendistato, come si fa a misurare la educazione che consegue il lavoratore? Non serve a questo punto fare delle leggi, delle norme giuridiche tradizionali; è possibile certificare la formazione attraverso gli enti bilaterali, cioè quelle strutture che sono state costituite dalle associazioni imprenditoriali e dai sindacati.
Allora la certificazione della formazione sarà probabilmente un terreno in cui verranno sperimentate, ma pregherei veramente di non indulgere ad una lettura diabolica di questo genere di pagine dove francamente si prospetta soltanto una sperimentazione di nuove tecniche.
Dal lavoro al mercato. Questa è una scelta che esiste nel libro bianco, dal rapporto al mercato, come diciamo noi. Cioè la tutela del lavoro non avviene soltanto sul singolo posto di lavoro, e quindi nell’ambito del rapporto bilaterale datore-prestatore di lavoro, ma anche e soprattutto nel mercato… perché il lavoratore passa da un lavoro all’altro, perché la vita lavorativa è cambiata, perché i 30-35 anni nella stessa azienda non esistono più… il lavoratore viene sempre più espulso; come facciamo a tutelare questo lavoratore che è sempre più sul mercato, cioè sulla strada, molte volte?
Occorrono i servizi pubblici per l’impiego, però occorre che i privati facciano la loro parte, perché oggi quando i ragazzi vogliono trovare lavoro vanno nelle società di lavoro interinale; vogliamo. Quante resistenze, quante critiche, quanto tempo perso prima di riuscire a far passare il lavoro interinale nel 1997!
Allora tutte le volte che si modernizza siamo sempre lì! Una fatica immensa, anche all’epoca gli strali, le accuse più feroci, le parole più pesanti contro chi voleva sperimentare il lavoro interinale… un peccato che gridava vendetta.
Mi sembra che questi tre-quattro anni abbiano dimostrato che non è successo niente, ci sono tanti ragazzi, tante donne che trovano lavoro.
Sottoprotetti? D’accordo, però un lavoratore interinale su tre dopo sei mesi viene assunto e allora come la mettiamo con questa diabolica e perversa tendenza di strutturare il contratto di lavoro? Qualcuno di voi l’ha colto: il libro bianco è figlio della passata legislatura, della prima parte, del pacchetto Treu, di quegli interventi riformisti che sono riusciti a regolarizzare il rapporto di lavoro e con tutta franchezza chi vede delle strategie diverse, secondo me, non fa una lettura obiettiva, perché gli strumenti sono certo rischiosi, il mercato è un rischio, ma vi assicuro (ci possono essere tante fonti bibliografiche che vi potrei citare che vi potrebbero convincere) che il libro bianco non è nulla di originale in questo, ma riflette una tendenza che è propria anche proprio della migliore sinistra, quella che ragiona e quella che non si chiude gli occhi.
· Intervento: Don Mauro Inzoli
Vengo da Crema. Volevo intervenire innanzitutto sottolineando tre punti che mi sono fissato. Che la preoccupazione fondamentale così come è espressa, se è quella di dare la possibilità ad ogni uomo di poter trovare un lavoro, non può che trovarci totalmente concordi, perché credo che non ci sia un’umanità che si senta più depressa come quella di un uomo che non può esprimersi soprattutto nel lavoro.
C’è una grande preoccupazione che è quella che credo ci trova totalmente concordi, che è necessario fare il possibile e anche soprattutto l’immaginabile nuovo per dare risposta al problema dell’esigenza di lavoro.
Sono piccole le osservazioni che faccio, perché già diversi sono entrati nel merito.
La prima: credo che ci sia un grossissimo problema che riguarda proprio la partecipazione allo scopo del lavoro e su questo c’è una deficienza grandissima che non è superata né dalla concertazione, né da nessun altro; ma è proprio una questione che riguarda il rapporto tra gli uomini del lavoro, sia chi il lavoro lo dà sia chi il lavoro lo “prende”.
È una questione che secondo me è decisiva, perché un uomo che è sottratto alla possibilità di influire sullo scopo del lavoro stesso, sulla destinazione del lavoro, evidentemente è sottratto a una possibilità per la sua vita, per cui è mancante; credo che da questo punto di vista, le grandi storie del lavoro, anche recentemente passate, siano dimostrative di uno sfascio totale, anche proprio dell’organizzazione quando viene meno questa possibilità.
Seconda cosa: quel che riguarda la flessibilità. Credo che siamo in un tempo nel quale sia richiesto per davvero, per la possibilità di offrire opportunità sempre più vaste e che raggiungano ambiti sempre più larghi di persone che lavorano, che si metta nella condizione all’uomo stesso di accettare la flessibilità.
Ma qui c’è un problema serio: non è solo flessibilità sì, flessibilità no… è che l’uomo, se non è aiutato ad essere flessibile, (per cui è un problema di formazione), come farà a diventare flessibile quando ha imparato un lavoro solo? E non riesce a fare l’altro; per cui lo si vorrebbe costringere a fare altro quando non sa farlo, per cui è un problema anche umiliante. Ora credo che, da questo punto di vista, sia assolutamente importante sottolineare questo aspetto.
Terza questione piccolissima, ma a me particolarmente cara: il problema dei portatori di handicap o di tutti coloro che debbono essere assunti ‘malgrado’ dalle aziende, perché sono portatori di una menomazione.
Credo che l’attuale legislazione sia veramente pesantissima sia per chi deve assumerli sia per chi è assunto. Non parliamo poi di tutte quelle cooperative sociali che fanno lavorare i portatori di handicap che si trovano in condizioni assolutamente disumane a dir poco, perché devono trattarli come lavoratori che dal punto di vista civilistico devono avere tutti gli oneri sociali a carico, (si sa benissimo che un portatore di handicap può produrre il 10, il 20, il 5, il 50%).
Ma questo è un problema che qui non è toccato e che riguarda una fascia sicuramente significativa del mondo del lavoro e che oltretutto permetterebbe a tutte queste persone svantaggiate di trovare un inserimento a minor costo rispetto a quello che invece lo Stato deve sopportare se li assiste fuori dall’ambito del lavoro.
Per cui credo che da questo punto di vista si possa portare un beneficio e dall’altro lato anche un risparmio.
· Intervento: don Teresio Scuccimarra (Gioc)
Assistente della gioventù operaia cristiana.
Avevo pensato alcune cose e sono stato preceduto da Caracciolo sul tema… Volevo solo cogliere questo aspetto: nella storia italiana è difficile pensare al successo del dialogo sociale.
Resto legato a questa immagine di un governo che non sia assente, ma che abbia una grande capacità di mediazione fra le parti sociali.
È vero che questo non sveltisce i processi, le decisioni, però credo che il giungerne insieme, l’arrivare insieme sia ancora un valore.
Collegato a questo c’è anche il tema della conservazione. Giustamente don Gianni Fornero segnalava come ci sono frange di sindacato legate al passato, ed è vero. Ci sono atteggiamenti tenacemente radicati in un atteggiamento antagonista; questo c’è, però mi viene anche in mente un passaggio di “interno sindacale”, di Manghi dove dice che il sindacato è di per sé conservatore, perché deve tutelare e quindi deve tener fermi alcuni valori, alcuni principi, alcune tutele deve comunque garantirle.
In una valutazione su questo tema del sindacato e della conservazione non dimenticherei questo aspetto.
Mi ero poi appuntato qualcosa su quella pagina X, già citata da don Rocco e poi da lei ripresa; in particolare dove si dice che occorre trovare nuove forme di amministrazione della giustizia guardando alle scadenze europee quale l’istituzione dei collegi arbitrali.
A me resta il timore che una enfasi sull’arbitrato rispetto alla giustizia togata sia pericoloso, perché infine bisogna capire l’arbitrato a quali criteri, principi e norme sancite sul piano legislativo, faccia riferimento.
Mi pare che, anche sul piano internazionale l’arbitrato sia molto in auge soprattutto nel WTO o in questi ambienti, nell’organizzazione internazionale per il commercio e mi pare che non garantisca troppo soprattutto i più deboli.
· Intervento: don Livio Destro (Triveneto)
Io vengo da una terra dove la flessibilità la si vive in modo fortissimo; negli ultimi cinque anni circa il 70% dei contratti nuovi sono cosiddetti atipici. C’è un problema vero nel lavoro: sta cambiando e stanno cambiando anche le possibilità per le persone di vivere il proprio lavoro.
La flessibilità è in questo senso una questione nodale che tocca non solo la dimensione del lavoro in sé, ma anche, come dice Laborem Exercens, diventa la chiave essenziale della questione sociale, perché dietro il problema della flessibilità c’è tutto un problema di come vivere la propria vita.
Ed è un problema vero, grosso; la gente ha paura. Questo noi lo cogliamo fortissimamente. È una paura di una rete a maglie troppo larghe che non sa ancora contenere tante situazioni particolari.
Se l’obiettivo del libro bianco è quello di arrivare a raccogliere anche quelle che sono realtà di lavoro estremamente difficili da sistemare, da regolarizzare, se diventa una possibilità reale di creare opportunità nuove di lavoro per chi lo perde o per chi nella flessibilità è continuamente posto nella condizione di ricominciare il lavoro, bene.
Il problema è che non si colgono espressamente… l’intenzione forse c’è, ma manca una chiarezza su alcune questioni, come ad esempio, ed è una delle proposte che fanno anche le ACLI, tra l’altro: la carriera di una persona è continuamente spezzata a ribasso oppure la formazione in questo senso diventa una parte del lavoro e qualifica? Questa è una domanda che a mio parere si dovrebbe raccogliere.
Chi si trova senza lavoro specialmente su età oltre i cinquanta anni vede davvero con paura, si sente un emarginato sociale.
Quale tentativo in questo senso? I contratti individuali se hanno questo obiettivo, mi va benissimo; però vedo che nel lavoro realmente capita che i contratti individuali tendono a sgretolare quella che Giovanni Paolo II chiama il luogo di lavoro come una comunità di persone, che fanno una comunità di individui, non più comunità, è un luogo di individui.
Questo, come prima accennava, può essere una forma positiva, ma usata in modo sbagliato.
Bisogna fare un monitoraggio serio allora di cosa vuol dire creare un contratto individuale.
A mio parere, sulle scelte imprenditoriali di valore sociale, tipo ad esempio, con i dipendenti, sull’ambiente, sulla sicurezza, perché non si formalizza in modo più determinato il bilancio sociale con ritorni. Ad esempio, ci sono aziende nel nord Europa, in alcuni Stati tra cui quello citato anche dell’Olanda e altri, anche Svezia e Danimarca, dove il bilancio sociale, cioè tutto quello che va a realizzare una migliore qualità di vita delle persone che lavorano, viene valorizzato come un beneficio per l’azienda, cioè, quando questa farà contratti ad esempio a livello pubblico, di appalti o forme di sgravio fiscale viene valorizzato il bilancio sociale.
Da noi questo non capita, è uno strumento forse. Mi dispiace che a volte dobbiamo anche confermare e contrastare delle situazioni. Non è che qui si prendono posizioni contro o a favore. Però a me è rimasto, mi permetta di poterlo esternare, sul “gozzo” una cosa; il 2 di settembre, a Vallombrosa, Maroni, davanti a un’assemblea di mille aclisti, ha detto che l’articolo 18 non era assolutamente da toccare, perché andava a favorire soltanto quei datori di lavoro che avrebbero voluto espellere dalla loro azienda i lavoratori di una certa età per assumere altri che sono più giovani che costano meno e magari più preparati e avrebbe creato un dissesto sociale non di poco conto.
Perché si è cambiata così notevolmente la cosa.
· Intervento Dott. Marco livia (ACLI)
Mi sarebbe piaciuto soffermarmi un po’ di più ad illustrarvi il contenuto del materiale che comunque trovate nella cartellina e che forse già in parte, sono contento, qualcuno già conosce.
I presupposti sono questi della riflessione: la Laborem Exercens ci chiarisce che la realizzazione dell’uomo, all’interno della società, proprio viene detto, nobilita l’uomo, ma nobilita l’uomo nella integrazione sociale.
Dall’altra parte però si parla anche di responsabilità sociale degli imprenditori, che è un soggetto a cui da qualche parte ho letto è come se Dio avesse affidato un bene sociale fondamentale che serve per far crescere tutta la società.
Dobbiamo cercare di attenuare il più possibile proprio gli effetti negativi della flessibilità; noi abbiamo approfondito solo alcuni aspetti, perché sarebbero tantissimi: la famiglia, i giovani, i cattivi lavori, ecc.
Perché se io mi devo spostare o devo essere chiamato improvvisamente e ho dei bambini, il sistema attuale non è che mi permette di prendere i miei bambini e di lasciarli in un asilo comunale, perché c’è la graduatoria, ecc.; non voglio entrare nel merito, non è possibile, nella stessa città, non dico da una regione all’altra.
C’è un problema della casa; un giovane che si vuole sposare, vuole mettere quindi su famiglia, quindi vuole appunto creare la piccola società, che è il fulcro poi di quella, con il lavoro interinale si presenta in una banca per acquistare una casa, come fa? Sto facendo degli esempi un po’ per entrare. Quando noi parliamo di sostenibilità concreta è questa. La formazione è un punto per noi nodale, perché giustamente, e sono contento che don Livio ha ripreso questo come pure don Mauro, proprio il cinquantenne che è arrivato, l’esempio del nord Italia è fortissimo, perché a quattordici anni si trovava lavoro; immediatamente, si usciva dalla terza media e si entrava in fabbrica…
Si trova adesso una persona a non avere nessuna possibilità di essere riqualificata.
I criteri di priorità: cos’è prioritario? Prima forse sarebbe stato più anche legittimato dai sindacati stessi, dalla società civile organizzata, se fossero stati dati dei criteri di priorità nella modernizzazione dello stato del mercato, perché forse prima aggiustiamo le agenzie per l’impiego, facciamole funzionare veramente, creiamo un sistema di welfare che funziona, creiamo una struttura che accoglie i giovani.
Chiediamo uno sforzo, non soltanto ai lavoratori, ma forse anche al sistema imprenditoriale e bancario di venire incontro.
La formazione quindi, attraverso la certificazione delle competenze, che è un sistema che in Europa funziona, è fondamentale; però io sono stato uno di quelli che ha aiutato la scrittura di un emendamento di legge in cui chiedevamo di dedurre dalle tasse i costi per la formazione. Perché? Non per i lavoratori dipendenti che ce l’hanno dalla parte dell’impresa (cioè l’impresa può mandare in formazione e detrarre i costi), ma proprio per i collaboratori coordinati e continuativi che sono una realtà di due milioni di persone in Italia; non è che possiamo dire sono cento persone… sono due milioni, dati dell’INPS.
Però che cosa succede? L’emendamento non è passato; non è questo! Però esce una circolare l’altro giorno, del ministero delle finanze che dice che, nell’ambito della Tremonti bis, i costi per la formazione fatti dall’azienda nei confronti dei lavoratori dipendenti, sono detraibili.
Solo quelli dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato; i collaboratori no.
Mi piacerebbe che il governo stesse attento a queste cose, perché proprio quelli che sono i meno tutelati, almeno aiutiamoli in questo passaggio flessibile. Se devono per tutta la vita passare da un lavoro all’altro, con un problema anche di identità professionale; ma questo lo possiamo risolvere, si può risolvere con una nuova cultura del lavoro da trasmettere ai giovani.
Ieri il Papa, ha lanciato un appello fortissimo ai giovani; proprio perché sono il futuro del terzo millennio; lo sentivo forte, questo messaggio ai giovani, proprio perché diceva: siete voi che potete veramente abbattere la logica del terrorismo, per esempio. Era un appello fortissimo che faceva ai giovani, benissimo!
Giovani entrano nel mondo del lavoro attraverso mille tipologie di contratti e poi ci si soffermano; il lavoro interinale veramente funziona in certi aspetti, però dateci gli strumenti! La formazione professionale, non parlo solo di formazione, di istruzione, deve avere poi gli strumenti per operare, per riqualificarsi, per ammodernarsi, per essere poi veramente capace.
Attenzione, io apro un capitolo che forse è ampio; se chiediamo la flessibilità e dall’altra parte però stringiamo troppo la cultura, l’istruzione; se creiamo dei profili troppo tecnici, io sono un contrario perchè poi non permette la flessibilizzazione.
Allora la cultura dovrebbe dare una capacità ampia poi di essere casomai formata e flessibile…, il problema della scuola; perché se formiamo delle figure troppo tecniche poi come fanno a essere flessibili? Scusate questo è un po’…, mi auguro che poi avrete modo di cogliere qualche sollecitazione.
L’ultima cosa è questa: noi stiamo lavorando per portare una proposta di legge al governo sui diritti formativi. Ne abbiamo già parlato con il professor Biagi; perché crediamo che i diritti formativi, lungo tutto l’arco della vita, devono essere forse l’unico bagaglio e l’unico strumento di difesa dei lavoratori nel campo del mercato.
La flessibilità, quello che abbiamo studiato nei percorsi, nei seminari di Vallombrosa, purtroppo la subiamo, ma non dal nostro governo, dal sistema del mercato.
In questo momento il sistema del mercato mondiale sta precipitando. La Cina si sta aprendo, ha firmato la Cina il WTO, ecc.; non voglio entrare troppo nel merito, ma il mercato del lavoro occidentale sta precipitando nel baratro di un sistema che non potrà più reggere secondo un certo tipo di regole.
Noi che abbiamo una certa etica, una certa filosofia, dobbiamo approfondire bene, dobbiamo studiare bene in che modo eticamente far sì che un lavoratore del terzo millennio sia veramente tutelato, ma non tutelato perché deve essere per forza lavoratore dipendente a tempo indeterminato; nasce in un’azienda e muore in un’azienda. Deve essere tutelato nella vita sociale, nel fare famiglia, nel crescere, nel procreare come ha detto all’inizio il professor Biagi.
Scusate.
· Intervento: Don Angelo Sala (Lombardia)
Solo un minuto, perché ormai sono stato preceduto su tante cose. Ci tengo a dire che non sono affatto pregiudizialmente contrario ad una flessibilità, ad un cambiamento che è fondamentale.
Sentiamo questa mattina una certa difficoltà, perché il linguaggio tecnico è proposto a noi che siamo fondamentalmente invece impegnati sul piano pastorale del lavoro. Quindi da noi c’è un rigurgito di motivazioni etiche, ecc.
Però tutta questa reazione non è davvero orientata a negare la fondamentalità anche del discorso tecnico.
Quello che mi ha sorpreso è quello di essermi sentito scavalcato a sinistra: far lavorare tutti, anche i deboli, essere al passo con i tempi, qualche tonalità romantica, ecc.
Invece io sento che ci sono due parole che mi fanno paura e non sono venute fuori prima, tutto sommato; la parola ‘precarietà’ e la parola ‘selezione’. Perché tutta questa filosofia dietro al discorso tecnico porta ad uno scenario in cui vigono queste due realtà fondamentali; la precarietà, cioè uno che deve cominciare sempre da capo, non è vero che il lavoro interinale ad esempio, porta poi dopo all’assunzione. Io ho due agenzie proprio sotto casa e vedo che c’è sempre una turnazione, un sempre daccapo; è la provvisorietà.
Uno non guarda al suo futuro con una certa tranquillità. Certo non è più il mito del posto unico di lavoro, però tutta la vita da capo, da capo, da capo, ecc.
I contratti di formazione che si ripropongono fino a una certa soglia… La selezione: vuol dire che si tagliano fuori alcune persone per prenderne altre. È stato già detto prima da don Livio.
La precarietà e la selezione compongono un asse coassiale che è micidiale, per cui se si tratta di tentare strade nuove è giusto. Non sia questo il vangelo, però; non sia questa la carta definitiva; c’è da lavorarci sopra molto e molto ancora perché etica e tecnica debbono essere coniugate in modo ancora più serio secondo me.
Replica: Dottor Marco Biagi
Grazie anche di queste opinioni, molto utili.
Vorrei cominciare facendo ammenda di due grandi difetti del libro bianco: sui disabili e sulla formazione. Se ci invertiamo un giorno i ruoli, vi dimostro quante severe critiche muoverei al libro bianco, ma per altre ragioni. Perché ci sono tante cose che non sono contemplate. Allora vi dirò con molta franchezza, cari amici, che il libro bianco non è frutto di mesi di riflessioni, di gruppi di lavoro strutturati.
Non siamo in un Paese dove i governi ancora fanno questo. È frutto un po’ di improvvisazione e io che l’ho coordinato lo so bene. Abbiamo sacrificato le ferie e l’abbiamo scritto, tutto lì. Non è mica stato un lavoro fatto in mesi di incontri programmatici; quattro o cinque persone come me che hanno sacrificato l’estate e tutto lì.
Quindi ci sono delle lacune enormi.
Questa è la critica più feroce che si può fare al libro bianco: quante poche volte compare la parola formazione. Questo io francamente mi sento di dire in una logica proprio di pentimento e, se dovessi riscriverlo, non mi farei sfuggire l’occasione.
Quindi, assolutamente, questo è un limite enorme e io personalmente, per quello che sarà il mio povero contributo, farò di tutto perché questi spunti, che io spero possano essere prospettati presto, possano fare parte integrante di quel progetto che dicevo prima dello Statuto dei lavori.
Perché la grande tutela, la tutela della adattabilità come la chiama l’Unione Europea, è proprio una combinazione fra flessibilità e formazione, cioè realizzare una nuova forma di sicurezza che non è il semplice aggancio al singolo posto di lavoro, ma è la sicurezza sul mercato.
D’altra parte quando uno cade giù (riprendo l’efficacissima immagine) bisogna darsi da fare, ma creare la sicurezza sul mercato non è mica facile, perché ovviamente è un mix, servizi pubblici per l’impiego che funzionino, formazione, pubblico, privato che dialogano. Però la strada è quella sicuramente.
Chi oggi cercasse le sicurezze nel passato, nella difesa di un mondo del lavoro che non esiste più, farebbe come il medico pietoso che non cura il malato e lo consola soltanto.
Quindi bisogna intervenire con degli strumenti nuovi, aver il coraggio, lo dico con franchezza, anche il coraggio dell’impopolarità. Perché nel difendere l’articolo 18 si acquista grande popolarità, ma non aiuta molto ad andare avanti.
Devo dire anche sui disabili: è un peccato che sento fortemente e al quale la delega sul mercato del lavoro cerca di porre rimedio; e anche questo è un terreno tipico. Io concordo con la sua analisi.
Cosa fare? Non ho per ragioni tecniche a disposizione un grande strumento in questo momento. Ho una delega sul mercato del lavoro. Ho suggerito queste due scelte e le segnalo: il disabile potrà essere assunto con un contratto a tempo determinato o con un contratto di lavoro interinale.
Immagino le vostre perplessità. La scelta è questa. Io mi sono stufato di vedere prima la legge del ‘68 poi quella più recente, di vedere le aziende che ne trovano mille di ragioni e di trucchi, pagano ammende, fanno tutto piuttosto che assumere disabili. Bisogna creare delle condizioni, intanto per farli entrare, e quindi meglio un disabile assunto con contratto a termine e con lavoro interinale che un disabile non assunto.
Per me è l’inizio dell’integrazione, di un percorso che può anche avere dei passi successivi. Ma la critica sul contratto a termine e sul lavoro interinale la possiamo fare più in generale.
Io capisco, però vedete, segnalo alla vostra attenzione e critica un provvedimento che è qui dentro, pronti a toglierlo, per carità, perché purtroppo con le quote obbligatorie e con gli altri strumenti non siamo andati da nessuna parte. Secondo me vale la pena tentare e vedere perché tutto sommato anche il lavoro interinale con le caratteristiche e coi limiti sui quali anch’io concordo, si traduce molte volte in una opportunità di integrazione. Questo è un dato che c’è; poi è chiaro che ci sono gli imprenditori che usano i lavoratori interinali come si usano gli asciugamani, usa e getta! Ma la cosa che non ha funzionato è per esempio che le aziende di lavoro interinale hanno pagato il 4% del monte salario per tutti questi anni e un efficiente ministero del lavoro non ha mai fatto fare la formazione.
Queste sono le cose che gridano vendetta e sono andati a coprire dei buchi dell’INPS di tutt’altra ragione e i poveri lavoratori interinali sono rimasti senza formazione.
Queste sono le cose che bisogna dire, ma purtroppo non sempre quello che si mette nelle leggi viene realizzato.
La responsabilità sociale
Noi abbiamo preso dei documenti comunitari, fra l’altro responsabilità sociale delle imprese è un argomento che pian pianino avanza. Anche nel consiglio di dicembre c’è stata una risoluzione del Consiglio Europeo sulla responsabilità sociale delle imprese. Risoluzioni sono quelle norme leggere che non piacciono, però a volte anche il Consiglio d’Europa va un po’ per passi. Prima fa la risoluzione, può darsi magari che fra qualche anno, dalla risoluzione si passi alla direttiva.
La virtù si acquista un po’ per gradi; è difficile diventare virtuosi così. La responsabilità sociale è una parte importante del libro bianco e la vorrei segnalare assieme alla partecipazione…, un disegno credo di grande valorizzazione della persona in una comunità. Il lavoratore non viene mai lasciato solo.
Altra cosa è la tutela evidentemente; il lavoratore non va lasciato solo, perché deve essere rappresentato da delle organizzazioni sindacali.
Anche lì se vorrete avere la pazienza di seguire un po’ le vicende delle prossime settimane che vedono questa delega viaggiare nelle acque procellose del parlamento, sentirete parlare di interventi secondo me importanti di promozione della rappresentanza collettiva dei lavoratori.
Il sindacato non viene distrutto.
Fra quello che fa Berlusconi e quello che fece la Teatcher c’è un po’ di differenza nel mondo del lavoro. La Teatcher fece un attacco frontale ai sindacati e dichiarò di voler tagliare loro le unghie.
Qui secondo me, c’è un discorso che chiaramente dice ai sindacati qual è una linea e poi si vede. Io vi posso dire che con gli amici della CISL io ho ragionato molto, moltissimo, anzi io sono andato a delle riunioni, tipo la vostra, in casa CISL, dove hanno dedicato delle giornate al libro bianco e non ho mai sentito tanti apprezzamenti come in casa CISL sul libro bianco, addirittura che mi mettevano in imbarazzo quasi.
Io sono andato anche alla CGIL, caspita, me ne sono sentite dire di tutti colori.
Per carità, io sono abituato ormai da tanti anni, però dico anche che vorrei sapere poi dove sono esattamente le cose che contraddicono la partecipazione, la responsabilità sociale delle imprese, ecc.
Una risposta più tecnica merita il rilievo sui collegi arbitrali; molto delicata questa cosa. Il presupposto che scriviamo nel libro bianco è: oggi la giustizia ordinaria non funziona. È giustizia quella per cui il giudice ci risponde se il licenziamento è legittimo o meno fra sei-sette anni in via definitiva? ‘Giustizia ritardata, giustizia denegata’, a mio modo di vedere, che è anche quello di molti.
L’idea non è quella di sostituire, ma è di sperimentare anche lì una soluzione che veda anche l’arbitrato.
L’arbitrato non è solo nel WTO, la globalizzazione e le multinazionali; l’arbitrato è nel mondo del lavoro in Francia e in Inghilterra che non mi sembrano Paesi incivili.
Il collegio dei probi viri ce l’avevamo anche noi prima del fascismo; i francesi se lo sono tenuti, i collegi dei prud’hommes e funzionano bene. I tribunali industriali, in Gran Bretagna, secondo me, sono più seri dei nostri giudici del lavoro che molte volte un’azienda non l’hanno mai vista e che non sanno assolutamente nulla… che transitano dalla famiglia al diritto commerciale, al diritto del lavoro, al diritto delle successioni… fanno delle grandi giravolte e ogni quattro-cinque anni si occupano di una causa di lavoro.
Secondo me nelle controversie di lavoro sarebbe utile sperimentare anche delle soluzioni arbitrali; poi certo quale arbitrato non è mica molto facile.
C’è tutta una discussione aperta sull’arbitrato secondo equità; certo qualcuno ha gridato anche qui allo scandalo, però se noi vogliamo dare al lavoratore e al datore di lavoro che litigano una risposta entro due o tre mesi, ci sono delle circostanze secondo me dove il giudizio di equità può anche avere un senso.
Questo sì che è un argomento delicatissimo e che, francamente, si presterebbe ad una bella discussione, anche da un punto di vista direi proprio etico.
Per non sfuggire a nessuna domanda; che il ministro Maroni abbia detto a Vallombrosa una cosa e ne abbia decisa un’altra dopo lo saprà probabilmente qualcuno che è più in alto di noi. Io non lo so; io quello che posso dire è questo: a me dell’articolo 18 – l’ho detto anche al ministro, quindi non sono irrispettoso, come battuta – non interessa quasi niente, perché si applica a pochi lavoratori, è diventata una guerra di religione per cui tutto il resto scompare e anzi ha fatto danni a una discussione più seria e più meditata, non per questo magari meno vivace, ma un po’ più sui contenuti, e devo anche dire però che la soluzione tecnica, prospettata una volta presa la decisione politica, certamente chi vi parla non ne è estraneo. Prendo quindi le mie responsabilità.
Penso che sia una buona idea quella che ha deciso di riformarla in via sperimentale e provare nei modi che sono stati previsti, cioè vedere se scatta una tendenza all’assunzione in via definitiva del lavoratore prima precario, cioè assunto a termine, se non c’è l’articolo 18.
Ho detto molte volte che non capisco perché non è stata fatta al governo una sfida di questo tipo: “chi controlla questa sperimentazione? Caro governo, tu che dici che senza articolo 18 si assumeranno più persone in pianta stabile, chi lo verificherà questo?”. Io avrei fatto come opposizione questa domanda: “caro ministro, lei adesso mi spiega come controlliamo questi dati, visto che lei parla di una sperimentazione”.
Perché qui, come si suol dire, casca l’asino; può darsi che non sia vero; può darsi che la flessibilità, come sospensione dell’articolo 18 non provochi occupazione. E allora credo che un governo serio, a quel punto, dovrebbe rivederlo.
Vi lascio con una battuta provocatoria. In questa delega ci sono proposte molto più pesanti dell’articolo 18; ve ne parlerò un’altra volta.
Sua Ecc.za Mons. Giancarlo Bregantini
È difficilissimo trarre conclusioni, né voglio fare il super partes, non è compito nostro, anzi… io credo che il dibattito abbia messo in luce una fortissima preoccupazione etica, ma anche una fortissima preoccupazione pastorale.
Quindi se i toni sono stati forti sono tali perché c’è dietro una voce di dolore e di fatica.
Certamente la finalità decisiva che ha retto e che regge tutto il nostro discorso è questo dar lavoro a più gente possibile. Su questo siamo pienamente d’accordo. Però pensate subito quanto sia drammatico il tema del Sud in questa linea e che quest’oggi non abbiamo nemmeno mai nominato, cioè le aree più fragili e quindi bisogna tener presente questa finalità, ma nel concreto.
Così pure estremamente preziosa è la dignità del lavoro e della persona. Lo stesso cardinale Ruini, qualche giorno fa, nella Prolusione, ha citato espressamente – a proposito anche dell’articolo 18 – questo discorso della dignità (su cui non possiamo assolutamente transigere, perché fa parte fondante del nostro stile) e la logica della solidarietà che va tenuta alta. Quindi bisogna essere molto cauti a dire che l’articolo 18 non ci interessa, perché riguarda pochi, perché può essere una lettura che in sé tecnicamente è di dimensioni ridotte, come è stato spiegato, però ha una forte valenza etica e sociale. Bisogna essere molto prudenti nell’esprimere certe analisi, perché dietro c’è una logica che può entrare.
A proposito della flessibilità invece, credo che il nodo oggi sia questo su cui abbiamo tratto alcune conclusioni che ho messo così in sintesi.
Va certamente finalizzato; non è uno strumento in se stesso, ma è un mezzo e non uno scopo; va regolamentata altrimenti diventa selvaggia; va resa sostenibile e questo è quanto il lavoro specialmente delle ACLI in questi anni ha portato avanti. In una riunione con Maroni alle ACLI, alla fine di novembre, noi abbiamo proposto un altro aggettivo che quest’oggi rientra benissimo, cioè deve essere una flessibilità promozionale, non può essere solo per l’azienda la flessibilità, ma deve essere per la persona, proprio nella logica della dottrina sociale della Chiesa.
Qui rientra tutto il fortissimo discorso della formazione, della scuola e quindi anche la riforma Moratti in questo momento. Dentro questo rapporto, il rapporto scuola-lavoro.
Allora sì che i diritti formativi sono utilissimi, perché non c’è solo l’azienda, ma c’è la persona, consapevoli che – e lì siamo d’accordo, credo, tutti – se la persona si sente promossa si sente anche produttiva. Ma noi non lo facciamo in maniera primaria, perché l’azienda produca, ma perché la persona si senta ben collocata. Di conseguenza anche l’azienda si sentirà collocata sul mercato.
Ed è il discorso giapponese in fondo; cioè un’azienda che rispetta prima di tutto la persona alla fine rispetta anche la produzione.
Questo è il discorso ovviamente da fare e qui c’è la sfida nostra. Ora la parola flessibilità promozionale veramente dà una finalizzazione diversa della flessibilità.
Non è di paura, ma qui sta la sfida. Qui per esempio, togliere il clima di incertezza che si sta creando; quello che del Triveneto è stato detto, cioè laddove è maggiormente attuata, chiede ovviamente dei contratti e quindi delle regole che non siano soltanto lasciate a una strumentazione personalistica o particolaristica, ma dei contratti che non sgretolino il passato, diano un bilancio sociale…
Il ruolo dei sindacati: intelligente, ma anche di grande valore, perché altrimenti adagio, adagio si sgretola tutto il discorso. Certamente in questa logica e quindi il discorso dei licenziamenti che di fatto già ci sono, non dobbiamo dire che non ci sono… ora bisogna ovviamente prendere atto di questo.
Sull’handicap lei ha fatto una sfida, io non saprei raccoglierla, che chiede un discorso molto grande. Certamente la reazione che lei ha avuto è anche mia. Se l’azienda non accoglie un disabile già oggi potrà accoglierlo con un contratto a tempo determinato? Questa domanda resta in piedi. Non lo so! Questa resta una situazione aperta.
Le altre due cose che ha detto, responsabilità sociale delle imprese e arbitrato per le controversie di lavoro chiede una riflessione più ampia che io non saprei…
Credo comunque che se noi diciamo, questo aggettivo che forse raccoglie questa flessibilità, quindi l’accoglienza del nuovo, ma non un nuovo, come dicevamo a Verona, che ci spaventa, un nuovo come Dio che è sempre nuovo, come la storia sempre nuova.
Ma allora creiamo una cultura del nuovo, che non sia anarchico, ma che sia finalizzato alla persona che nel nuovo deve crescere. Questo è il punto nodale. Lì tocca a noi, a livello anche sociale, educativo, di pastorale del lavoro, riuscire a dare questa risposta.
La sfida noi l’accettiamo.
Forse lei ha colto la bellezza della dialettica, della passione, frutto dell’amore per la gente che abbiamo, frutto della fatica anche di chi vede tanta gente senza lavoro oppure gente espulsa… La ringraziamo immensamente e le auguriamo di portare queste note non secondarie, ma incisive, anche in alto.
Comunità di Santa Maria della Vittoria
CENTRO DI FORMAZIONE ALLA MEDITAZIONE CRISTIANA
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