lunedì 23 marzo 2009

La Cetra di Elia. http://twitter.com/EliadellaCroce

SONO IN TE TUTTE LE MIE SORGENTI
« Dicono poeti e musicisti: sono in te tutte le mie sorgenti», canta un salmo.
Avvertiamo che comincia a sciogliersi la neve che copre tutte le apparenze, e che allora queste apparenze diventano apparizioni. In questa prospettiva, accennerei dapprima alla situazione nuova che, sempre più, mi sembra tipica del cristianesimo. Poi, ai sentieri che bisogna delimitare. Prima di mostrare che, dato che la luce di Cristo discende nell’inferno perché l’inferno stesso diventa luogo di Pentecoste, i veri poeti sono profeti.
Il cristianesimo del XXI secolo non sarà più, né si presenterà più come una «religione» allineata con le altre. Si scoprirà e si affermerà come religione dello Spirito e della libertà, nello spazio cristico che i filosofi religiosi russi – quei profeti – chiamavano, da Vladimir Solov’ev in poi, la «divino-umanità». La «divino-umanità», è lo scopo stesso della creazione. Il divenire del cosmo – come sottolineano oggi alcuni astrofisici –, e poi il movimento della storia gli fanno prendere forma e tutto si ricapitola e si apre sull’avvenire con l’incarnazione, la Croce, nuovo albero di vita, la Resurrezione e la Pentecoste.
Il cristianesimo del XXI secolo non sarà moralismo né pietismo, ma l’annuncio – che chiama ad una santità creatrice – della vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno. Non potremo più evitare quella che Léon Bloy chiamava la «pericolosa pedagogia dell’abisso». È forse ormai la sola via che possa essere insegnata agli innumerevoli eredi (anche se non sanno di esserlo) di Dostoevskij e di Nietzsche, agli impazienti sempre delusi che sprofondano nell’inferno della droga, dell’erotismo, del terrorismo, della follia. Questi uomini e queste donne, discesi nelle regioni più tenebrose dell’abisso, veri scorticati vivi, saranno raggiunti, saranno sollevati, dai gemiti dello Spirito, dalle sue grida di gioia pasquale. Lo Spirito li proietterà non nel mondo della «salvezza» e della morale, ma nel mondo della resurrezione e della trasfigurazione, una trasfigurazione totale dell’uomo e dell’universo.
Così saranno chiamati non alla mistica che s’immerge nel divino come una mosca nel miele, ma a una profezia creatrice, quella del Regno che, come dice Gesù, è allo stesso tempo tra voi e in voi. Un Regno di cui la forza, la luce, la dignità possono fecondare gli autentici fondamenti della storia e della cultura dell’umanità. Che cosa importa qui il numero?
Come ha detto Kazantzakis, in questa prospettiva, «un uomo può salvare l’universo intero». La tettonica a zolle ci insegna che uno spostamento di qualche millimetro negli strati profondi della crosta terrestre provoca un terremoto in superficie! Una spiritualità creatrice – in cui, più ci si sprofonda in Dio, più si diventa responsabili degli uomini – costituisce la vera infrastruttura della storia (per riprendere, rovesciandolo, il vocabolario marxista).
Nella «divino-umanità» si ricongiungeranno l’Occidente e l’Oriente cristiano, il primo mettendo di più l’accento sull’amore attivo, sul servizio del prossimo, il secondo sulla «deificazione» come vero segno di «salvezza».
Bisogna rifare dell’uomo una domanda, e dirgli che questa domanda non è senza risposta! Una domanda, molte domande. Perché la bellezza? Se il rosaio fosse soltanto una macchina efficiente, non ci sarebbe bisogno di tanti fiori. La bellezza è una profusione inutile, la gratuità di essere, un sentimento trascendente della gioia di essere. Il punto purpureo della rosa buca lo spazio, buca la luce talvolta grigia e piatta, verso quale altrove?
Perché la morte? O piuttosto, perché sappiamo di dover morire? Non lo sanno gli animali, la più intelligente delle scimmie trascina il suo piccolo morto, cerca di nutrirlo, finché questa «cosa» s’affloscia tra le sue braccia. Solo l’uomo sa che morirà e avverte la morte come contro-natura. Se per lui la morte non è «naturale», è perché non è totalmente suo prigioniero, perché lo incalza un altro stato, una vita più forte della morte. La sua nostalgia, il suo desiderio, persino la sua frenesia di trasgressione e di parossismo cercano un altrove, quale altrove?
E perché l’amor e non solo il sesso? Perché la passione tragica o l’umile e buona fedeltà e non solo, come diceva un filosofo del secolo XVIII, «lo scambio di due fantasie e il contatto di due epidermidi»? Perché la tenerezza, talvolta, al di là del desiderio, o le metamorfosi del desiderio che si esprime in tenerezza? Quale altrove paradisiaco si lascia presentire quando l’incontro dei corpi non fa che prolungare la comunione tremante degli sguardi? «Così dunque ritorniamo ai corpi», scriveva John Donne, «così gli uomini potranno infine vedere l’Amore rivelato; i misteri d’amore crescono in fondo alle anime, eppure il corpo resta il libro dell’Amore».
Ma non ci sono solo domande. Ci sono anche risposte. L’altrove viene a noi, si rivela. L’amore al di là del desiderio, la bellezza al di là dell’utile, la non-naturalità della morte ci aprono alle rivelazioni dell’altrove. Bisognerà dunque approfondire, alla luce dello Spirito Santo, il senso dell’eros, del cosmo, della morte. Dinanzi alla povera banalizzazione dell’eros, alla rabbia di mostrare tutto e tutto vedere, ricorderemo che l’eros può diventare il linguaggio di un vero incontro fra due persone. Inventeremo una poetica rinnovata per l’amore e per la donna: «Un giorno», scriveva Rilke, «sarà la donna. E questa parola «donna» non significa più solo il contrario dell’uomo, ma qualcosa di proprio, che ha il suo valore in sé. Non più un semplice complemento, ma una forma completa della vita, la donna nella sua umanità verace». Allora, aggiunge il poeta, l’amore diventerà «due solitudini che s’inchinano l’una davanti all’altra».
Per ciò che riguarda il cosmo, svilupperemo le intuizioni di san Francesco d’Assisi e la «contemplazione della natura» nell’ascesi dell’Oriente cristiano, contemplazione, dice sant’Isacco di Siria, «dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose». Infine diremo, testimonieremo la vittoria pasquale sulla morte, vittoria sempre presente, sempre rinnovata.

Tra le prerogative del poeta (perciò indubbiamente egli profetizza) c’è la capacità di suscitare il risveglio. Gli antichi asceti dicevano che il più gran peccato è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talvolta indaffarato, talaltra poveramente sensuale, incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di stupirsi, di vacillare davanti all’abisso, sia per orrore oppure per giubilo. Incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere l’inconsueto degli altri e delle cose. Insensibile alle sollecitazioni segrete, pur così frequenti, di Dio.
Interviene allora il poeta, e vorrei citare anzitutto il grande, il tragico Pasolini: «C’è per me un vuoto nell’universo, un vuoto nell’universo, e di là tu canti». «Perciò può urlare un profeta che non ha la forza di uccidere una mosca, e la cui forza è nella sua degradante differenza». O ancora, più tranquillamente (in apparenza), Stephane Mallarmé: «Balbetto, straziato: la Poesia è l’espressione, nel linguaggio umano ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso dell’esistenza. Dà autenticità al nostro vivere e costituisce il solo lavoro spirituale».
Così la poesia – più estesamente l’arte – ci sveglia. Ci approfondisce nell’esistenza. Fa di noi uomini e non macchine. Rende le nostre gioie solari, le nostre ferite strazianti. Ci apre all’angoscia e alla meraviglia. La poesia profetica di domani, nell’irraggiamento della Croce pasquale, non sarà più questa volontà di auto­deificazione, di auto-trasfigurazione, di conquista prometeica della Terra del desiderio che ha animato l’«alchimia del verbo» in Occidente, dal romanticismo tedesco al surrealismo: «Il vero poeta è onnisciente», diceva Novalis, «il filosofo poetico è nella condizione di creatore assoluto», «la poesia è il reale assoluto». E Rimbaud: «Sto per svelare tutti i misteri: morte, nascita, futuro, passato, cosmogonie, nulla. Io sono maestro in fantasmagorie». E Nietzsche: «Da quando l’uomo si è perfettamente identificato con l’umanità, muove la natura intera», «io stesso sono il fato e, dall’eternità, sono io che determino l’esistenza». Ma il mito della Terra del desiderio è svanito nelle camere a gas di Hitler, nelle nevi siberiane dove tanti cadaveri sono stati abbandonati, con una placca di legno attaccata alla caviglia.
Sappiamo, nondimeno, che molti hanno resistito recitando poemi, a se stessi o ai loro amici.
Poemi della Terra dei desideri, talora, ma spogliati del prometeismo, restituiti alla loro nostalgia fondamentale. Poemi, anche, di certi «passatori», tra bagliori di parusia da una parte, bellezza e orrore del mondo dall’altra. Per esempio, penso a Baudelaire, Eliot, Mandelstam, Pasternak, Achmatova. Echi di liturgia in Pasternak: «Ma ogni carne dopo mezzanotte a un tratto farà silenzio. La primavera diffonderà la notizia che alla prima schiarita la morte sarà alla mercé del grande slancio della Pasqua». Umiltà dell’ultima rosa nell’Achmatova: «Signore, vedi come sono stanca di risuscitare, di morire e di vivere. Prendi tutto: ma questa rosa rossa, che io senta ancora la sua freschezza».
Riprendendo il discorso, spero per domani nello sviluppo di una poesia liturgica radiosa che, pur basandosi sull’alta tradizione d’Oriente e d’Occidente in modo che si conservino nei monasteri benedettini ed esicasti, si ricordi che Cristo non smette di discendere agli inferi e che il nichilismo occidentale, domani planetario (gli integrismi che pretendono di resistergli in realtà non sono che il suo specchio), sì, che il nichilismo è oggi indubbiamente l’unico luogo possibile della Resurrezione. Questa poesia liturgica emergerà come un’alta montagna sulla quale il celeste si condensa nella neve, giacché essa stessa fa nascere i ruscelli, le praterie e i frutteti.
Poetica delle cose, e domani del volti, poiché il mondo, il mondo di Dio e dell’uomo, il mondo del Dio fatto uomo e dell’uomo chiamato a deificarsi, esiste solo nel campo dell’incontro di sguardi, della comunione di volti. L’arte astratta di Kandinsky ha permesso al suo amico Alexej von Jawlensky di accedere al mistero del volto, alle sue strutture segrete, al suo lik, dicono i russi, cioè alla sua icona potenziale (in opposizione a licina, che significa maschera). «Sentivo il bisogno di trovare una forma per il volto, perché avevo capito che la grande pittura non è possibile se non a chi è fornito di un sentimento religioso. E questo potevo renderlo solo attraverso il volto umano». Tante illuminazioni di Berdjaev, di Athénagora, più recentemente di Emmanuel Lévinas, annunciano questa poetica del volti, e talvolta accade che alla televisione un volto di verità, di santità – nelle ultime settimane quello di Soeur Emmanuelle, compagna degli chiffoniers del Cairo, alla televisione francese – s’impone, in mezzo a tanti musi, becchi e grugni, come la Veronica nella Via Crucis di Jeronymus Bosch. Allora il cuore si scuote in profondità, ogni cosa, ogni persona sembra un miracolo.

Questa poesia profetizza. Non perché faccia vaticini, predica l’avvenire. Nella sua umiltà, nel suo spogliamento, nella sua gloria segreta, non decifra l’avvenire, ma lo rende possibile. Profeta significa «colui che parla per». Colui che parla per il più segreto, il più inosservato, il più disprezzato, il più debole – quel Dio che Elia avvertì non nella tempesta né nel terremoto, ma in un sussurro «al limite del silenzio».
Dunque, dobbiamo essere pazienti. Oggi, tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo, come la grotta della Natività, come la grotta del cuore. È necessario che il Dio della libertà e della gioia raggiunga l’uomo «post-modemo», che allo stesso tempo è adulto e si rifiuta di esserlo, è insieme potente e disperato, nelle zone più segrete della sua angoscia e del suo desiderio. È il grido profetico di Dimitri Karamazov condannato ai lavori forzati nei sotterranei, compresi quelli dell’anima, condannato per un delitto che ha commesso senza commetterlo, così come tutti noi: «Se scacciamo Dio dalla terra, lo incontriamo sottoterra... Ecco allora che noi uomini sotterranei intoneremo nelle viscere della terra un tragico inno al Dio della gioia. Viva Dio e la sua gioia! Io l’amo».
Pace a colui che ha scritto e a chi legge.
Pace a coloro che amano il Signore
in semplicità di cuore.



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