La coscienza è portavoce non della personalità o del carattere individuale ma di Dio. Ian Ker
Molti cattolici, almeno nell’Occidente secolarizzato, concepiscono secolarmente la coscienza come qualcosa di personale e individuale. Certo, è perfettamente vero che, così come posso pensare solo con la mia mente e non con quella di un altro, allo stesso modo posso seguire o non seguire solo la mia coscienza, e non quella di un altro. Ma quando oggi si parla della mia coscienza enfatizzando mia, si pensa alla coscienza come qualcosa di gran lunga più individuale e personale. È come parlare della mia personalità, dei miei gusti. Nelle società e nelle culture autoritarie, naturalmente, può accadere l’opposto: la mia coscienza diventa la coscienza dello Stato. E anche in una società secolare e pluralista l’individuo può equiparare
la legge e la morale: se lo Stato ammette unioni dello stesso sesso e bandisce ogni forma di discriminazione, allora il cittadino può avere la sensazione che immorale non sia l’omosessualità ma il condannarla. E certamente è possibile anche per i cattolici equiparare la propria coscienza all’insegnamento della Chiesa, che è ben diverso dall’obbedire coscienziosamente a quell’insegnamento.
Nella sua celebre dissertazione sulla coscienza, nella Lettera al Duca di Norfolk, Newman segue la tradizione cattolica evitando i due estremi, ossia ponendo l’accento
sia sui diritti sia sui doveri della coscienza, perché pur essendo personale la coscienza implica un’autorità esterna alla persona. Newman comincia citando la definizione di san Tommaso d’Aquino di legge naturale come « un’impressione in noi della Luce Divina, una partecipazione della legge eterna nella creatura razionale » . L’umana consapevolezza di questa legge, per quanto difettosa in taluni individui, è ciò che Newman definisce coscienza: « Questa legge, appresa nelle menti dei singoli individui, viene chiamata ' coscienza'; e sebbene possa subire rifrazione nel passare allo strumento intellettuale di ognuno, non per questo perde il carattere di Legge Divina, bensì conserva, in quanto tale, la prerogativa di esigere obbedienza » .
La moderna idea secolare di coscienza la considera come una « creazione dell’uomo » , nulla più di « un egoismo lungimirante » e – questa è una delle penetranti osservazioni di Newman – « un de- siderio di essere coerenti con se stessi » . Newman riformula il tradizionale concetto cattolico di coscienza come sovrana ma dipendente da un’autorità esterna: « La coscienza è l’originario Vicario di Cristo, profeta nelle informazioni, monarca nella perentorietà, sacerdote nelle benedizioni e negli anatemi, e, anche se il sacerdozio eterno attraverso la Chiesa cessasse di esistere, in essa il principio sacerdotale rimarrebbe e avrebbe autorità » . Nella società secolarizzata questo « severo assistente » è stato sostituito da un « surrogato » , ovvero « il diritto di pensare, parlare, scrivere, agire secondo il proprio giudizio o il proprio umore, senza darsi pensiero di Dio » , in altre parole da nient’altro che « il diritto della volontà » . Allora la coscienza diventa semplicemente « il diritto assoluto e la libertà di coscienza di dispensarsi dalla coscienza » .
Si dice spesso che Newman ammetteva il dissenso di coscienza dagli insegnamenti della Chiesa. Per quanto sia vero che Newman, in sintonia con la tradizione cattolica, sostiene che la coscienza è suprema nel senso che essa è – per usare la sua espressione evocativa – « l’originario Vicario di Cristo » , quel famoso brindisi ( « Sono contrario ai brindisi prima o dopo i pranzi; ma se fossi costretto a farne uno e fossi posto nel dilemma di brindare al Papa o alla libertà di coscienza, brinderei a questa e non al Papa! » ) non fu mai inteso da Newman nel senso che un cattolico possa essere condotto dalla coscienza a dissentire dagli insegnamenti della Chiesa. Naturalmente egli avrebbe concordato con san Tommaso nel sostenere che un cattolico potrebbe, anzi dovrebbe, seguire una coscienza erronea anche se questo volesse dire abbandonare la Chiesa. Ma un membro credente della Chiesa ha un dovere di coscienza di credere agli insegnamenti della Chiesa, e non di scegliere e prendere ciò a cui credere. La verità è che Newman, nella Lettera al Duca di Norfolk, era interessato innanzitutto a confutare l’accusa di Gladstone secondo la quale la definizione di infallibilità papale del Concilio Vaticano I sottraeva ai cattolici la libertà politica e li rendeva sudditi di un potere straniero ( la Santa Sede) e a mostrare che quella definizione non sovvertiva in alcun modo il loro patriottismo né sminuiva la loro responsabilità morale.
L’idea che un cattolico possa in coscienza dissentire dagli insegnamenti morali del magistero avrebbe stupito Newman. Non gli si è mai presentato il caso.
Scrivendo prima delle questioni etiche sollevate dai progressi della scienza medica, poteva scrivere senza battere ciglio: « Il Papa interviene così poco in tutto questo sistema di teologia morale dal quale ( come dalla nostra coscienza) le nostre vite sono regolate, che il peso della sua mano su di noi, come singoli, è assolutamente impercettibile » . Con felice mancanza di prescienza, osserva che « il campo della morale contiene così poco di sconosciuto e inesplorato, in contrasto con la rivelazione e il fatto dottrinale … che è difficile dire quali parti dell’insegnamento morale nel corso dell’Ottocento derivino effettivamente dal Papa o dalla Chiesa… » . La teologia di Newman della coscienza e la sua relazione con l’autorità docente della Chiesa ribadisce la sovranità, ma non l’autonomia, della coscienza individuale. La coscienza è portavoce non della personalità o del carattere individuale ma di Dio.
Di IAN KER
( traduzione di Anna Maria Brogi) Avvenire
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