LE CITTÀ ALLA PROVA
Presentato a Genova il rapporto Fondaca: cento casi di successo in cui Comuni e società civile hanno lavorato insieme per rispondere al degrado e alle paure di quartieri e periferie Sicurezza partecipata, la risposta alle ronde Da Nord a Sud, ecco i territori che hanno puntato sulla prevenzione
DA MILANO DIEGO MOTTA Avvenire 12 Marzo 2009I l lavoro di mediazione sociale nei quartieri periferici di Roma tra popolazione originaria e nuove comunità di immigrati, l’azione di recupero a Milano e nell’hinterland delle donne coinvolte nel dramma della prostituzione, il recupero di spazi pubblici e la salvaguardia del patrimonio culturale in una città come Arezzo. Sono tre dei cento casi illustrati nel rapporto realizzato da Fondaca e presentato ieri a Genova nel corso di un convegno, che raccontano un altro modo di garantire più qualità della vita a livello locale. È il modello della «sicurezza partecipata», che si contrappone alle ronde recentemente istituite dal governo.La mappa può contare su esperienze di successo che coinvolgono grandi metropoli e paesi di provincia: c’è il patto siglato a Paderno Dugnano, nel Milanese, per la sicurezza urbana, l’impegno raggiunto per rispondere al degrado in città come Bologna e Ravenna, il lavoro delle cooperative per l’inserimento degli stranieri a rischio integrazione nei piccoli centri. Iniziative in campo, in alcuni casi, da decenni in tutta Italia, che pur tra incognite e ostacoli, vanno avanti e funzionano grazie alla capacità di ascolto dei territori e della popolazione locale.Una vero e proprio mosaico, fatto di lotta al disagio sociale, di accoglienza dei bisogni dei cittadini, di rilancio dei quartieri. Soluzioni adottate insieme da amministrazioni comunali e soggetti della società civile, che precedono e anticipano il dibattito sulle ronde, le «associazioni tra cittadini non armati» istituite per decreto dall’esecutivo il 23 febbraio scorso. «In realtà – spiega Giovanni Moro, presidente di Fondaca – i presidi sul territorio non riguardano le ronde, fenomeno tipicamente americano, ma ciò che si chiama sorveglianza passiva», in cui i cittadini senza poteri di polizia possono segnalare situazioni critiche sul territorio. «Anche a livello internazionale, questi strumenti hanno un modesto impatto nella prevenzione dei crimini – aggiunge Mo- ro – Invece l’azione combinata di soggetti amministrativi o governativi e di soggetti civici o comunitari ottiene i risultati migliori e più duraturi».Quali sono i settori in cui la sicurezza partecipata ha consentito di ottenere in Italia i risultati migliori? Si va dai «contratti per la sicurezza» sottoscritti da organizzazioni civiche a interventi di mediazione sociale e gestione dei conflitti, ad esempio tra comunità autoctone e nuovi insediamenti di immigrati. Ma coinvolgere i cittadini nelle politiche per la sicurezza può voler dire anche dare in gestione veri e propri spazi pubblici, come piazze o edifici, allo scopo di rivitalizzarli e rilanciarli, restituendo così alla comunità beni pubblici in precedenza degradati o abbandonati. Allo stesso modo, la collaborazione virtuosa tra Comuni e organizzazioni civiche può comportare la creazione e gestione di servizi come ricoveri e case protette per donne vittime della tratta o centri di aggregazione per giovani a rischio. Molto diffuse anche azioni di sensibilizzazione sociale tematica, dalla violenza domestica contro donne e bambini alla sicurezza stradale. Resta centrale anche la promozione di strumenti di partecipazione alla vita della comunità attraverso incontri pubblici, tavoli di coordinamento e forum.Tutto bene, dunque? No, «perché una realtà spesso articolata e positiva come questa spesso viene trascurata da un dibattito troppo ideologizzato» osserva Moro. Senza dimenticare i problemi di attuazione che sui territori spesso si verificano, legati all’impatto dei progetti, alla loro durata e al nodo risorse: capitoli su cui le istituzioni pubbliche devono ancora colmare un ritardo rispetto alla società civile.
http://twitter.com/EliadellaCroce
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