mercoledì 18 aprile 2007

Preghiera e meditazione agiscono sul sistema limbico del cervello e producono un senso di sollievo


COSTUME
Dall’America all’Europa, sempre più istituti scientifici, università e ospedali sollecitano una maggior presenza della fede e della preghiera in campo medico. Trenta atenei statunitensi hanno inserito nei loro programmi delle facoltà di medicina corsi appositi. E un’inchiesta della rivista «Lancet» fa discutere
Salute
la religione aiuta a guarire?
C'è chi lancia la pratica del distacco da ogni pensiero, per vincere l'insidia del pessimismo. Cure «palliative»? Sarà, però oggi si cerca come renderle più efficaci
Oggi si impone una questione ancor più delicata: il dottore deve tenere conto della particolare tradizione religiosa in cui si riconosce il paziente?
Di Luigi Dell'Aglio
Dieci anni fa scriveva Richard Ostley, ascoltato editor di Time Magazine: «Forse la medicina sarà costretta ad avviare una partnership con la religione, per alleviare le sofferenze dei pazienti e aiutarli a guarire». La previsione comincia ad avverarsi se almeno trenta università americane, tra cui spicca la Harvard Medical School, hanno inserito, nei programmi delle facoltà di medicina, corsi di "Religione, spiritualità e salute". Del resto, la spinta è venuta da una ricerca condotta dall'American Academy of Family Phisicians. Il 99% dei medici di famiglia Usa è convinto che la fede e la speranza che ne scaturisce possano favorire la guarigione, e di questi il 75% pensa che un ruolo molto significativo vada riconosciuto alla preghiera. Ed è dal 1998 che, sempre negli Stati Uniti, si è mosso un grande ente di ricerca pubblico, i National Institutes of Health, l'Istituto americano della Sanità, che fa capo al governo federale, intraprendendo studi per capire quanto la dimensione spirituale e la preghiera possano influire sul successo delle terapie e comunque sulla qualità di vita del malato.
Nell'Europa multietnica, viene invece affrontata una questione ancora più delicata: il medico deve tenere conto della particolare tradizione religiosa in cui si riconosce il paziente? «Perché non tutte le religioni considerano il dolore e la malattia allo stesso modo. Alla domanda "quale senso dare alla prova del dolore?", le varie religioni rispondono in modo diverso. E allora ci sono tanti modi diversi di soffrire», dice Michel Meslin, che alla Sorbona ha fondato l'Istituto di ricerca per lo studio delle religioni. In questo istituto si è formato un gruppo di lavoro di cui fanno parte medici dell'Assistance Publique di Parigi e storici delle religioni, filosofi e psicanalisti. E la collaborazione è promettente.
La preghiera è un potente strumento di aiuto per il paziente, ritiene l'Istituto Usa della Sanità, che ha finanziato il National Center for Complementary and Alterna tive Medicine. Qui si studiano le reazioni fisiologiche e psicologiche provocate da pratiche spirituali come la preghiera e la meditazione. Tutte queste iniziative prendono corpo anche su richiesta dell'opinione pubblica: l'80% degli americani attribuisce alla fede un potere terapeutico. Si è arrivati così al Mind Boby Institute creato da Herbert Benson, dell'Università di Harvard, considerato l'alfiere delle terapie "noetiche" (che mobilitano la mente, nous in greco). La sofferenza cinge d'assedio la mente; per vincere l'accerchiamento, il professore ha lanciato il breakout principle, o principio del distacco da ogni pensiero.
Time Magazine riferisce che Benson, rivoltosi ai pazienti per sapere, a loro giudizio, quale azione riesce meglio a staccare la mente dal dolore e dal pessimismo, si sentì rispondere dalla maggior parte di loro che il breakout lo compie più efficacemente la preghiera. Il "distacco" raccomandato da Benson rallenta il metabolismo e il respiro, abbassa la pressione. «Si producono speciali tipi di onde cerebrali che inducono i due emisferi del cervello a lavorare in modo più integrato». Queste pratiche non esimono le autorità sanitarie dal garantire le normali cure contro il dolore. Contro il quale, specie quello oncologico, debbono essere messe in campo tutte le terapie, biologiche e psicologiche. Finora, troppo spesso queste cure sono state considerate un inutile spreco di tempo per la medicina; l'attributo "palliative" ha contribuito a emarginarle e a svuotarle di contenuto . Oggi si comincia a fare ricerca per renderle più efficaci. E si riconosce la necessità di applicarle in tutti i casi, perché finisca l'indifferenza nei confronti di quello che il teologo francese Jean-Yves Baziou ha chiamato «lo scandalo dell'uomo che soffre».
Preghiera e meditazione agiscono sul sistema limbico del cervello e producono un senso di sollievo. I ricercatori della Duke University, nel Nord Carolina, hanno dimostrato che chi va in chiesa regolarmente, e legge le Sacre Scritture, da anziano non avrà la pressione alta e non rischierà l'ictus o l'infarto. La rivista Lancet descrive uno studio, attuato in un'unità coronarica, in cui si misura anche l'effetto dell'orazione recitata, per il paziente, dai suoi parenti o da gruppi di preghiera. Risultato: non si è riscontrato alcun miglioramento immediato; ma sono diminuite del 36% le complicanze ed è scesa la mortalità a sei mesi dall'attacco. Su questi e su tutti gli altri dati raccolti dalle ricerche sono scoppiate discussioni senza fine. I meccanismi attraverso i quali la preghiera e la meditazione agiscono sulla salute sono ancora in gran parte sconosciuti per la scienza. Si sa ancora troppo poco della biochimica del cervello. Perciò le dispute fervono. Davanti alle terapie noetiche, molti scienziati appaiono diffidenti. Non riescono a trovare una spiegazione tangibile, cioè scientifica. Spesso, obiettano, il riscontro è empirico: l'aiuto al paziente si manifesta soprattutto nella sfera psicologica e allora l'interpretazione del risultato dipende molto da chi lo analizza, se è un credente oppure no. Ad ogni modo, il dibattito fa partire sempre nuovi studi, per conoscere meglio la portata del fenomeno e spiegare scientificamente i meccanismi mentali e fisiologici i attraverso i quali si produce.
il medico
Agrò: «Le neuroscienze essenziali, ma mente
e corpo possono essere aiutati dalla fede»
Luigi Dell'Aglio
«Il dolore è una sensazione complessa, si compone di tre parti: percettiva, "affettiva" e cognitiva, per cui le funzioni cerebrali superiori (memoria, ragione, capacità di ideazione) influenzano le altre due componenti. Ansia o depressione potenziano la sensazione dolorosa. Il controllo di questi stati d'animo, anche attraverso il raggiungimento di un senso di serenità, attenua la percezione del dolore e lo rende più sopportabile. I fattori emotivi e cognitivi possono non solo accrescere il dolore ma anche "produrlo" : in un certo senso, la paura di soffrire è già sofferenza". Parla Felice Eugenio Agrò, ordinario di Anestesia e Rianimazione nel Policlinico universitario Campus Bio-Medico di Roma, di cui è direttore sanitario.
Professore, questa idea antica che risale al filosofo Epitteto viene ora convalidata dalle neuroscienze?
«È stato possibile comprendere le relazioni tra biochimica, psiche ed emotività perché nei primi anni '70 ha luogo una svolta rivoluzionaria: vengono identificati i neurotrasmettitori, molecole incaricate di trasferire gli impulsi elettrici da un neurone all'altro. Si chiude così la diatriba tra l'idea aristotelica del dolore come emozione e quella di Galeno che invece lo considerava pura sensazione. Nella realtà l'emozione è inseparabile dalla sensazione, che varia notevolmente da individuo a individuo».
La mente, spalleggiata dalla fede, può diventare un efficace alleato del paziente?
«Chi ha una fede che lo sostiene nelle sue certezze è anche una persona che spera e ha più fiducia nel futuro. Ciò può avere ripercussioni positive anche sul suo modo di reagire di fronte al dolore. Si può dire che la fede ha un'azione "terapeutica". Lo psichiatra Victor Frankl ha osservato come nei campi di concentramento gli internati con credenze più salde, in grado di dare un senso alle proprie esperienze, reagivano meglio degli altri ai dolori fisici e alle brutalità, giungendo persino a resistere di più alle infezioni».
Alcuni accolgono con riserve le statistiche sull'efficacia delle terapie noetiche. Perchè?
«La scienza medica deve occuparsi non solo di guarire le malattie, quanto di curare le persone malate. La sofferenza umana rimane ancora oggi "un mistero", che, in quanto tale, sollecita l'uomo a studiare il rapporto tra fede e salute. Le pubblicazioni dedicate a questo argomento sono molteplici, anche se diversi autori hanno dichiarato che le ricerche pubblicate da autorevoli riviste sul tema "fede e salute" presentano seri difetti metodologici».
Ma a cosa sono dovuti questi difetti?
«La dimensione spirituale non ha la stessa dinamica della fisiopatologia. Se si vuole valutare l'efficacia di un antibiotico in una malattia infettiva, si effettua un trial clinico e si osserva quanti pazienti hanno risposto alla terapia e sono guariti, rispetto ad un gruppo di controllo composto da pazienti che hanno la stessa malattia ma sono trattati con un altro antibiotico. Nella valutazione della efficacia si segue una logica di causa-effetto tipica della medicina scientifica. Al contrario, la preghiera coinvolge la libertà e la fede di chi prega e la libertà di Dio che agirà secondo la sua misericordiosa provvidenza e sapienza; pertanto non è detto che l'efficacia della preghiera debba valutarsi dalla percentuale di volte in cui Dio concede la grazia richiesta. Comunque va messa in chiaro la profonda differenza tra la preghiera cristiana ed altre pratiche. Pregare, per un cristiano, significa soprattutto dialogare con Dio che è suo padre: comporta sempre un processo di distacco da sé, un "de-centramento" dell'attenzione dall'io all'interlocutore, nonchè un atto di "affidamento". Per questo motivo, anche da un punto di vista psicologico, la preghiera cristiana è forse la più idonea a favorire la scoperta del senso delle proprie esperienze e il recupero della pace interiore».
il teologo
Bellet: «La parola è sempre indispensabile
per sentirsi meglio e in pace con Dio»
Maurice Bellet, teologo e filosofo, è è uno degli autori dell'opera «Alla ricerca della guarigione», libro di alcune centinaia di pagine, frutto della riflessione di medici, filosofi, religiosi, psicanalisti e storici francesi sul tema della sofferenza umana.
Lei aveva già affrontato l'argomento in un piccolo saggio divenuto un classico,"La prova", che pubblicato nel 1988 ha avuto molte riedizioni. Le chiediamo: come si conciliano i due approcci, teologico e filosofico, rispetto al dolore?
«I loro obiettivi si completano a vicenda. Li riassumerei così: la parola è necessaria perché l'essere umano che soffre non sia solo, condannato ad assistere alla distruzione del proprio corpo e del proprio universo. E' la parola che dà un aiuto umano a un altro essere umano: "Tu sei qui per me, io sono qui per te". Il mio libro La prova testimonia la sofferenza di un paziente, ed è stato scritto, essenzialmente, in ospedale. Dunque, nel posto giusto. Le reazioni sono state tante, e mi hanno impressionato. I malati che mi scrivevano si sono ritrovati in una reciproca vicinanza. C'è uno di loro che non si limita a chinarsi sulla loro sorte: condivide le angosce e si batte contro la malattia. Ecco perchè questa parola è indispensabile. Nello stesso tempo, il succo del libro è nel sottotitolo: "Il libriccino della divina dolcezza". Quando si è nella condizione dell'uomo che soffre e sente che la morte si avvicina, quale rotta tenere se non quella di un amore di questa qualità?».
Nel suo scritto lei si rivolge a specialisti della lotta contro l'Aids. Come ha accertato l'efficacia del suo approccio?
«Mi ricordo di un medico, un famoso medico generico, che alla fine della propria vita diceva: "Il mio corpo si disfa, ma io sto bene". Riuscire a sentirsi bene, da uomo, indipendentemente dalle circostanze e dallo stato del corpo, è, in fin dei conti, il più urgente degli obiettivi per un malato. Io rendo onore ed esprimo gratitudine ai medici. Ma, nello stesso tempo, voglio citare il vecchio Ambroise Paré, il padre della chirurgia moderna, il quale dichiarava: "Io curavo questo paziente, Dio lo ha guarito". Certo, da allora, la parola Dio è diventata così ambigua può essere imprudente pronunciarla. Ma questa umiltà resta fondamentale per me. C'è un'umanità dell'uomo che resterà inaccessibile alle siringhe».
Lei descrive la grande sala dell'ospizio di Beaume: ai lati, i letti dei malati, e in fondo l'altare al quale ogni giorno il prete celebrava la Messa...
«Quel luogo, che risale al Medioevo, mi ha offerto lo spunto per meditare. Ogni malato aveva uno spazio dove potersi isolare. E, in fondo, c'era lo spazio dedicato a Dio, che lo congiungeva a tutta la Chiesa, al mondo e all'eternità. Un luogo cristiano, in quella cristianità che fu, dalla caduta dell'Impero Romano fino alle crisi del XVI secolo, lo spazio dell'Europa. La solitudine prodotta dalla malattia era collegata a una comunità, e la comunità s'inquadrava in un ordine sufficientemente trascendente perché l'essere umano, malato e morente, si riconoscesse parte di un grande circuito nel quale la sua esistenza, tanto limitata, poteva acquistare senso. Questa esperienza interiore non sarebbe affatto accettata dai nostri contemporanei. Ma tra quel modello, rappresentato dall'ospizio di Beaume, e gli ospedali di oggi, non c'è posto per altre prospettive?».
Pace a colui che ha scritto e a chi legge.
Pace a coloro che amano il Signore
in semplicità di cuore.   
http://justin.tv/meditazione                                                        








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