
Domande e inquietudini su un caso non chiuso
Davide Rondoni
Nel tripudio di immagini che hanno circondato il rilascio del giornalista rapito in Afghanistan, si stanno facendo largo alcune umanissime domande. Delicatissime ma non per questo meno vibranti. Domande e inquietudini che prima ancora di arrivare a toccare i risvolti politici di una faccenda poco chiara, turbano le coscienze di tanti italiani. Inquietudini con le quali bisogna fare i conti, senza nascondersi. Perché a furia di non fare i conti con le cose, a furia di irresponsabilità si procede verso la confusione, non verso la pace. E la confusione è il miglior modo per preparare gli scontri. La prima inquietudine è per la gravità del fatto. Nella soddisfazione generale dell'esito raggiunto, non si può perdere di vista la nuda gravità dei fatti. Il rapimento è una pratica odiosa. Per quanto sia ormai entrato nella consuetudine di questi turpi anni, non va dimenticato. Si tratta di un gesto indegno, e vigliacco. Da combattenti sleali. Il rapimento di un giornalista e di civili è, anche in guerra, una pratica odiosa. Sgozzare un uomo perché sospettato di essere una spia, senza processo, senza inchiesta, senza niente se non la sentenza, è un atto di barbarie. Farlo sotto gli occhi degli altri rapiti è segno di una ferocia disumana. Non va dimenticato, non va occultato tutto questo nei più larghi discorsi di politica internazionale. Non va cancellato nel tripudio. Un uomo è stato barbaramente ucciso, sua moglie per il dolore ha perso il figlio che portava in grembo. Vale poco tutto questo? Un altro è stato liberato solo in cambio della liberazione di chi con le armi e seminando morte vuole imporre un regime che ha spregio di diritti umani e libertà. Accanto alla gioia della liberazione dev'esserci la condanna senza indugi per tutto questo. Invece non l'abbiamo sentita. E questo inquieta. Come inquieta - da parte di uomini esperti di comunicazione - l'ostentazione di segni, come il turbante del liberato, quasi come un re magio in un affresco di Benozzo Gozzoli, che sem brano accondiscendere o addirittura omaggiare qualcuno. Chi? Gli afghani? O gli autori di un eccidio feroce? Perché non un cappellino con scritto: viva la pace o viva l'Italia ? I simboli in un tempo grave sono importanti. In questi mesi un bellissimo romanzo è passato di mano in mano a centinaia di migliaia di lettori in Italia, e a milioni nel mondo. «Il cacciatore di aquiloni», edito da Piemme, è un best seller grazie al passa parola. L'autore, figlio di un afghano rifugiato negli Usa dopo l'avvento al potere di gruppi talebani, racconta con delicatezza e commozione la vita di un grande Paese sconvolto dalla oppressione di un potere teocratico e violento. Anche grazie a quel libro la gente afgana che i nostri soldati sono là a difendere ci è diventata più cara. Non va dimenticato. Non va fatta confusione. In altri casi, per altri ostaggi italiani finiti tragicamente, non c'è stato nemmeno dopo tanto tempo, una così generale condivisione di scopi e di azione. E di onore. Come nel caso di Fabrizio Quattrocchi che gridò il suo "viva l'Italia" prima d'essere stroncato. Addirittura in molti lo criticarono. E ancora: un cittadino non può non provare inquietudine di fronte a chi, mediando con successo per la liberazione di un ostaggio, dichiara che per farlo deve avere il campo sgombro dai servizi di Stato. Il «via tutti ci penso io» di Strada è un atto di forza, ma anche un atto di grande debolezza. Giusto plauso, ma resta la domanda sul peso di tali affermazioni. E sulle conseguenze. La "sostituzione" di canali diplomatici e di intelligence con canali umanitari è davvero proficua? E se pure lo fosse in determinate situazioni e per strategia condivisa, vale la pena sbandierarlo? E lo Stato a che cosa serve? A pagare l'aereo per il ritorno? A fare manifestazioni in patria?
Venerdi 23 marzo 2007-Avvenire-
Pace a colui che ha scritto e a chi legge.
Pace a coloro che amano il Signore
in semplicità di cuore.
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