40 anni fa, il 17 aprile del 1967, 18 milioni di italiani si alzarono all’alba per ascoltare la diretta radiofonica: al Madison Square Garden vinceva contro Griffith il titolo mondiale dei pesi medi. La consacrazione di un mito sportivo che, lasciati i guantoni, ha vinto il match della vita
Benvenuti, dal ring alla fede
«Nel 1996, portato da padre Mark sono arrivato in India, al lebbrosario di Madras. Sono rimasto tre mesi e se non fosse scaduto il permesso di soggiorno forse sarei rimasto ancora molto tempo, perché lì come in nessun altro luogo ho avvertito la presenza di Dio»
Di Massimilano Castellani
Primo round... «Andavo ancora all'asilo, quando un giorno mi fecero vedere un filmato che parlava di un lebbrosario. Le immagini di quella gente che moriva di lebbra non le ho più dimenticate. E solo dopo tanto tempo ho capito e toccato con mano». Inizia così l'album dei ricordi di Nino Benvenuti: con Primo Carnera, prima che un campione della nobile arte del pugilato, una leggenda popolare e un simbolo di quegli anni '60 che segnarono il boom. La leggenda Benvenuti nasce nell'allora italica Isola d'Istria, anno 1938, appena in tempo per sfiorare la pagina atroce delle foibe. «Un giorno vennero a casa e presero mio fratello Eliano. Eravamo convinti che come tanti ragazzi istriani fosse finito anche lui nelle foibe. Poi scoprimmo che per errore era stato rinchiuso nel carcere di Capodistria. Lo liberarono dopo 7 mesi, ma nostra madre per lo spavento da allora cominciò a star male e più tardi morì di crepacuore…». Quando la madre morì la sua famiglia si era già trasferita a Trieste e nella cantina della loro villetta il piccolo Nino creò il suo primo ring. «Tre corde legate a una colonna e un vecchio sacco. Così ho cominciato, seguendo la passione di mio padre che avrebbe tanto voluto tirare di boxe, ma i suoi genitori non glielo permisero». Sotto l'ala protettiva paterna Nino cresce in fretta, modella fisico e muscoli su una faccia d'attore. Il suo sinistro imprendibile ne fa un talento mai visto sui ring italiani degli anni '50 e da dilettante mette insieme 120 vittorie su altrettanti incontri disputati, presentandosi con un sorriso da copertina di rotocalco alle Olimpiadi di Roma, 1960. Battendo in finale Yury Radonyak conquista la medaglia d'oro e diventa il "principe" dei pesi welter, in un'edizione che incorona il futuro "re" dei massimi, Mouhammad Ali, l'eterno Cassius Clay. «Eravamo due ragazzi io e Ali e tra noi nacque subito un grande feeling. L'ho rivisto due anni fa e la sensazione che mi ha trasmesso è stata la stessa del nostro primo incontro: mi emozio no davanti a quest'uomo che ha la consapevolezza di saper sempre cosa fare e cosa dire, anche ora che il morbo di Parkinson gli impedisce di parlare».
In quell'avvio di anni '60 Benvenuti e Ali fanno il grande salto nel professionismo e comprendono che il mondo sta tutto nei loro guantoni. Il Nino nazionale diventa campione mondiale dei superwelter e poi passa ai medi per scrivere un capitolo fondamentale della letteratura dello sport e del costume nazionale. Quarant'anni fa, il 17 aprile del 1967, 18 milioni di italiani si svegliarono all'alba per ascoltare la diretta radiofonica: dalla mitica arena del Madison Square Garden di New York andava in onda il trionfo di Benvenuti sul colored Usa, Emile Griffith. «Ancora oggi incontro "ex ragazzi" di allora che si ricordano di quella notte, quando i genitori li svegliarono per ascoltare quel match alla radio. Indimenticabile il commento partecipato di Paolo Valenti che si rendeva conto di stare vivendo un momento storico che univa un Paese intero. Vinsi, e lo feci con lo stesso spirito con cui ho affrontato ogni sfida, con l'umiltà di chi ha creduto sempre in se stesso. E questo mi ha aiutato a non temere mai nessuno avversario». Dopo quella notte magica in America, come Rocky Graziano Nino pensò: lassù qualcuno mi ama. «Ma come Paganini non ripetevo mai la stessa prestazione». E così cinque mesi dopo Griffith si riprese il titolo iridato. Ma la sfida prevedeva una "bella" che, nel marzo del '68 andò ancora a Benvenuti. Dopo 15 riprese il Nino nazionale uscì dal nuovo Madison senza neppure un segno in volto, mentre Griffith fino all'ultimo round esausto e inorridito continuava a ripetere al suo manager Clancy: «Quel sinistro è un incubo. Non riesco a schivarlo, mi arriva sempre in faccia…». Sarà la stessa sensazione che la notte del 7 novembre del 1970, a Roma, Benvenuti avrebbe provato contro il destro maligno della furia argentina Carlos Monzon. Contro l'«indio di Santa Fè», l'anno seguente a Montecarlo dopo tre r iprese Benvenuti fu costretto a gettare la spugna e a dare l'addio alla boxe.
Un uomo dal pugno di pietra Monzon, fortissimo sul quadrato, quanto fragile appena metteva i piedi fuori, per seguire un cammino disperato, macchiato da un uxoricidio, prima del tragico epilogo avvenuto a soli 46 anni in un incidente stradale. «Andai a trovarlo in Argentina, al carcere di Chunin dove era recluso. Mi accolse con un sorriso dicendomi dolcemente: "Come va Nino, siamo ancora amici no?". Certo che siamo amici, gli ho risposto abbracciandolo. Tempo dopo sono andato a vedere il luogo in cui è morto, una lapide in cima a un burrone di appena due metri. Non ho mai capito come abbia fatto a morire così...». Una fine maledetta, come quella di tanti altri pugili, caduti dal loro finto paradiso dorato e finiti ko, con la faccia nella polvere. E su questo, il saggio Benvenuti una spiegazione l'ha trovata. «Il pugile è un bambino forte che pensa di avere il mondo sempre in pugno. Ma poi gli anni passano e un giorno si sveglia con la terribile sensazione che tutto ciò che voleva e che poteva prendere solo allungando il braccio, è svanito, ma nel frattempo non si è mai preoccupato di crearsi un'alternativa. Così si sente smarrito e più povero che mai, perché ha sempre dato tutto agli altri: al pubblico, alla gente della strada, a quelli che credeva fossero amici, senza ricevere nulla in cambio se non la vana gloria che però sì sa, passa in fretta. Io mi sono salvato da tutto questo perché ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha trasmesso il culto del lavoro e il senso profondo del sacrificio che ti ripaga con i risultati sia nello sport che nella vita». Ma quando appese i guantoni al chiodo, il gancio vero Benvenuti l'ha trovato nella fede. Di colpo quelle immagini di un lebbrosario viste su uno schermo da bambino le ha vissute da protagonista, come in uno di quei film western in cui recitava insieme all'amico Giuliano Gemma. «La fede non mi ha mai abbandonato. Anche perché ho sempre pensato che la fede vive in noi. Con questo spirito, nel 1996, portato da padre Mark sono arrivato in India, al lebbrosario Giovanni XXIII di Madras. Ero l'unico bianco e tutti si meravigliavano del fatto che non avessi alcun timore di toccarli e di baciarli. Sono rimasto lì tre mesi e se non fosse scaduto il permesso di soggiorno magari sarei rimasto per molto tempo... Vedo ancora padre Mark e vorrei tanto tornare laggiù, perché mai come in quel luogo ho avvertito la presenza di Dio». Sensazioni forti come quel giorno che incrociò lo sguardo di Giovanni Paolo II. «Ero in Piazza San Pietro e avevo con me il bambino di un amico, ad un tratto Papa Wojtyla si è avvicinato, ha spalancato quegli splendidi occhi celesti come il cielo e mi ha riconosciuto… Sapeva chi ero. Ma come, mi dissi: lui talmente grande, riusciva ad occuparsi delle cose più piccole come un uomo di pugilato? Rimasi incantato». L'incanto di uno degli incontri che hanno segnato il percorso di un uomo che dal bordo-ring della sua esistenza studia le prossime mosse. «Sono arrivato a quasi settant'anni, ho sei figli e quattro nipoti e oggi posso dire di sentirmi davvero più solido e completo di un tempo. La boxe è sempre nel mio dna, ma il match più importante è quello con la vita, che mi impone di migliorarmi come uomo, giorno dopo giorno. E devo farmi trovare pronto, perché sento che il mio incontro, quello più atteso, devo ancora combatterlo…».
Domenica 25 febbraio 2007- Avvenire-
http://twitter.com/EliadellaCroce
Pace a colui che ha scritto e a chi legge.
Pace a coloro che amano il Signore
in semplicità di cuore.
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