UN PARLAMENTO DI CITTADINI
Davide Rondoni
Abbiamo assistito in questi mesi, fino all’apogeo di questi giorni, a lunghe discussioni, a giri di parole, a voli di metafore per descrivere la morte e la nascita di nuovi partiti, in entrambi i poli e sui bordi dei loro confini. Si parla di processi politici dall’alto e dal basso. Si mostrano platee in visibilio, in lacrime, sbandieranti. E però intanto quasi tutti i partiti lavorano a ipotesi di riforma elettorale che escludano di fatto cittadini e formazioni sociali dalla vita politica. Prevale l’idea che sia solo il partito a decidere chi e dove si può candidare. Le elezioni sarebbero una espressione di oligarchie – le segreterie e i summit dei partiti – che decidono la mappa di candidati ed eletti. Tutto questo è segno di ipocrisia. Mentre ovunque e in diversi campi – si pensi tra l’altro ai tanti dibattiti che si stanno tenendo sulla educazione o alla manifestazione del 12 maggio a Roma – ci sono segni di una volontà di partecipazione.
È salutare dunque il forte richiamo che arriva da un documento che anch’io ho sottoscritto tra i primi sessanta firmatari, provenienti da ogni campo e da diversi orientamento culturali e politici. In quella paginetta che trovate sul web (digitando: un parlamento di cittadini) si dice che è sacrosanto che i partiti facciano il loro mestiere, occupandosi di come raggiungere e gestire il potere. Senza la presunzione di indicare quale modello elettorale adottare si insiste però che si conservi la possibilità dei cittadini di organizzare la loro partecipazione e il loro consenso anche al di fuori di quanto stabiliscono i vertici dei partiti. Così che il Parlamento sia un’assemblea di cittadini e non un raduno di persone che devono tutto al leader o al colonnello che li ha scelti.
È una elementare, radicale questione di libertà. Sottoscritta da persone che voteranno in modo diverso e hanno visioni culturali e politiche distanti, come il Presidente emerito Cossiga o il presidente di Unipol Stefanini, o come Savino Pezzotta, la pres idente dell’Agesc Colombo o lo stilista Versace. Un insorgere di persone. Perché la partecipazione di cui si straparla è semplicemente una accorta regìa del consenso, e una riduzione del cosiddetto "coinvolgimento dal basso" a puro tifo. Non paiono sfiorati, i riformatori di casa nostra, dal fatto che la democrazia appaia talora un sistema in crisi, indirizzato con metodi che sono simulacri di democrazia. La quale resta tuttavia il metodo migliore di partecipazione.
E allora non la si avvilisca, non la si svuoti di polpa per lasciarne scheletro e parole d’ordine vuote come slogans. È democrazia quella in cui pochi gruppi in cima ai partiti – mediando tra lobby di ogni genere – decidono nomi che dobbiamo barrare? Poi ti mettono in mano la bandiera, il telecomando, scelgono un inno alla moda coinvolgente, ti pagano il pullman per andare a una manifestazione, se ne hai voglia, e dicono: che bella partecipazione! No, questa è una messa in scena. Certo, in tanti vanno a votare, pur con sistemi a liste bloccate o con nomi imposti dall’alto. Ma è appunto il segno che partecipare si vuole e si vorrebbe. Magari non solo col voto. Dopo il tifo c’è l’apatia. Educare il popolo – con leggi e riforme – a considerare la politica una faccenda di tifo trasforma tutti i partiti in grandi marchingegni per il consenso più che presenze socialmente rilevanti e animatrici della società. Solo un ingenuo in Italia pensa che a livello delle faccende cittadine o nazionali chi conta veramente sono i partiti e i loro scambi di schiaffoni come vengono propinati dai media. Quando entrano in gioco interessi che pesano, si vede che influiscono ben altre faccende che non l’appartenenza al partito. Non è un caso che la quasi unanimità dei cosiddetti partiti sia allineata su ipotesi di riforma che comunque escludono movimenti di base che sfuggano dal loro controllo. È un tipico gesto di prepotenza al culmine di una grande debolezza.
Pace a colui che ha scritto e a chi legge.
Pace a coloro che amano il Signore
in semplicità di cuore.
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